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L’azione della politica tra il “già” e il “non ancora”

Danilo Di Matteo

L’azione della politica tra il “già” e il “non ancora”

di Danilo Di Matteo

 

Il teologo alsaziano Oscar Cullmann (1902-1999), particolarmente attento alla dimensione ecumenica del cristianesimo, ha proposto un’immagine ampiamente accolta: quella del già e del non ancora. È proprio nella tensione fra il già e il non ancora un aspetto decisivo della fede: Gesù Cristo ci ha salvati una volta per tutte (il “già”) e, nello stesso tempo, siamo in attesa del Regno di Dio come realtà perfetta e compiuta (il “non ancora”); sospesi, dunque, tra l’avvento e la parusia. Gesù ha, insieme, annunciato e inaugurato il mondo nuovo.

E a ciò si lega il senso dell’azione politica del credente: delle opere vanno compiute, dell’impegno va profuso, occorrono dei gesti e degli esempi come anticipazioni, assaggi, prove, primizie di quella che, in una prospettiva di fede, sarà il compimento, la realtà ultima, la rivelazione escatologica. Mi impegno quasi a voler anticipare ciò che sarà, come a voler dare sostanza con l’azione sociale a quel “già”, alla predicazione di Gesù. Ecco, provo a farmi interprete dell’insegnamento del Signore già con qualche gesto, provando a introdurre qualche elemento di giustizia nel tempo presente. La predicazione e la testimonianza cristiana, infatti, non si attuano solo mediante “il detto”, la parola, bensì pure attraverso “il fatto”, l’azione, appunto.

Pietro, non a caso, nella sua seconda lettera, esorta ad aspettare e affrettare “la venuta del giorno di Dio”. Il credente non si crogiola nell’attesa, ma prova a dare corpo a quel mondo nuovo, da subito. Ecco, il versetto di Pietro è citato anche nel Leviatano di Thomas Hobbes. E, più in generale, Carl Schmitt delinea un vero e proprio “cristallo di Hobbes”, con una parte inferiore chiusa, costituita dai bisogni umani – innanzitutto da quelli di protezione e di sicurezza del singolo –, una parte centrale, rappresentata dall’autorità, che prova a soddisfare quei bisogni, la parte superiore, aperta alla trascendenza. Per Schmitt (“Il concetto di ‘politico’”) la verità secondo cui Gesù è il Cristo, che Hobbes ha proclamato così spesso e così palesemente come propria fede e convinzione, è una verità della fede pubblica, della public reason e del culto pubblico al quale il cittadino prende parte. Nella bocca di Hobbes ciò non suona affatto come semplice affermazione tattica, come menzogna strumentalizzata e dettata dalla necessità di preservarsi dall’incriminazione e dalla censura”. Al contrario, un autore così realista come lui prende sul serio la trascendenza.

E allora perché i due aspetti – politica e trascendenza – paiono così dissonanti? Forse in quanto – ecco un tentativo di risposta – la politica segue le sue leggi peculiari, spesso distanti dall’etica e dagli insegnamenti evangelici. Da Tucidide a Machiavelli, e poi fino ai nostri giorni, vi è tutta una scienza politica che obbedisce a esigenze e canoni dissimili dalla maggior parte dei precetti religiosi. Eppure quelle leggi non andrebbero viste come assolute e disincarnate; al contrario, andrebbero relativizzate. Esse possono aiutarci a leggere e a comprendere i fatti, ma non andrebbero concepite come tabù ai quali sacrificare ogni aspetto della vita. Un esempio: la priorità degli obiettivi rispetto ai mezzi volti a raggiungerli. Troppe volte nell’agire politico si assolutizza questa massima e altrettante volte i mezzi, nati per raggiungere questo o quel fine, se ne impossessano, divenendo a loro volta fini, obiettivi. Lo strumento, la macchina che alimenta sé stessa.

La teologia politica ci mostra che tante strutture e idee politiche hanno un’origine teologica: prima fra tutte l’idea di regno. Ciò, tuttavia, non esaurisce il rapporto tra le due dimensioni, proprio in quanto l’impegno politico può nutrirsi di un oltre o di un altro, di un orizzonte che trascende la quotidianità e che può essere intravisto nella coscienza e magari condiviso con altri e altre. Quello tra teologia e politica non è solo un rapporto a monte; nella politica non può esservi solo l’eco, o il riverbero, di antiche e astruse costruzioni teologiche. La fede può rappresentare anche il dopo, ciò che ci attende e che occorre iniziare a cogliere qui e ora; ciò che dona un senso al nostro agire e al nostro presente, e che naturalmente non andrebbe imposto per decreto. Ciò che relativizza le nostre costruzioni e ne mostra la provvisorietà, la caducità, la precarietà.

Ecco, non di rado la nozione di religione rimanda a un’idea di chiusura, quella di religiosità a un vago sentimento consolatorio. La trascendenza, in realtà, è apertura, capacità di infrangere steccati, possibilità di superare limiti angusti. La trascendenza come campo del possibile, che sfida le strettoie e i vicoli ciechi della necessità, del “non c’è alternativa”. Ci può essere un oltre, e un altrove. E c’è sicuramente l’altro, l’altro da noi, che ci interroga incessantemente e nel volto del quale, come direbbe Emmanuel Levinas, si può forse scorgere l’Altro.

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Danilo Di Matteo è psichiatra e scrittore