Penazzato: il secondo fondatore delle Acli

Claudio Sardo
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“Una vita per le Acli tra impegno e creatività”, convegno 15 giugno 2023

Relazione: “Profilo di Dino Penazzato”

Dino Penazzato è stato un presidente importante per le Acli. Venne eletto il 2 aprile del 1954, quando aveva da poco compiuto 40 anni. Restò in carica sei anni, fino a quando la pressione della Chiesa – da un lato il Segretario di Stato vaticano, Domenico Tardini, dall’altro il presidente della Cei, Giuseppe Siri – travolse definitivamente la resistenza della maggioranza (maggioranza risicata, a dir il vero) del gruppo dirigente aclista in tema di incompatibilità tra cariche esecutive interne al movimento e mandato parlamentare.

Furono sei anni intensissimi. Domenico Rosati, biografo di Penazzato, a cui devo grande parte di questa ricostruzione, li racconta come gli anni della rifondazione delle Acli. Perché l’identità originaria, cioè la “corrente cristiana” del sindacato unitario, forgiata nel clima resistenziale del Patto di Roma, era stata nei fatti cancellata da circostanze obiettive: la fine dei governi di unità nazionale, le elezioni del ’48, la rottura della Cgil dopo lo sciopero generale per l’attentato a Togliatti.

Penazzato, vicentino, non faceva parte del nucleo dei fondatori delle Acli: Achille Grandi, Giulio Pastore, Vittorio Veronese. Tuttavia nelle Acli era entrato prestissimo, nel marzo ’45, con le SS ancora a Milano. Come responsabile dell’ufficio stampa e propaganda cominciò a lavorare nella sede di via Aracoeli 3. Il trasferimento in via Monte della Farina sarebbe avvenuto in seguito.

Fu Giulio Pastore, segretario centrale delle Acli, che portò Penazzato a Roma. E Penazzato prese il posto di Pastore come segretario centrale un anno più tardi, nel ’46, quando Pastore divenne responsabile organizzativo della Dc: una scelta fortemente voluta da Giuseppe Dossetti che prevalse, in quell’occasione, su Alcide De Gasperi, orientato in favore dell’ingegner Senigallia.

Giuseppe Rapelli intanto aveva preso il posto di Achille Grandi al vertice della Cgil unitaria, come capo della corrente cristiana, e Ferdinando Storchi era stato eletto presidente delle Acli. La leadership emergente di Pastore mise ai margini Grandi (pur sostenuto da Gronchi), prima ancora del corso fatale della sua malattia.  

Nel quinquennio tra il ’44 e il ’49 gli equilibri della Dc, dell’universo cattolico, del Paese sono tutti in via di definizione. Grandi sono le speranze. Ma le spinte e le controspinte fortissime.

Possiamo dire oggi che, fin quando Giuseppe Dossetti ha giocato la sua partita politica, immaginando una Dc diversa da quella degasperiana, un governo più proiettato sui temi sociali, una cultura dal chiaro segno personalista ed evangelico come sintesi nella quale potevano riconoscersi tutte le forze popolari che avevano scritto insieme la Costituzione, ecco, fino a quel momento lo spettro delle opzioni cattoliche – nei contenuti assai prima che nelle alleanze – è rimasto molto ampio.

Poi De Gasperi vinse la partita, con la sua strategia europea e atlantica, con il suo realismo, con la scelta di alleanza con i partiti laici minori, con il suo anticomunismo democratico che ha reso invalicabile il confine di destra, nonostante le pressioni del “partito romano”, forte nella Curia. Il quadro si è sostanzialmente stabilizzato. Nella Dc, nel Paese. Gli argini del “centrismo” hanno indirizzato il corso del fiume nella prima stagione della ricostruzione.

I semi di un confronto aperto, a tutto campo, prodotti nella temperie morale e ideale della fine degli anni Quaranta, hanno però lavorato sotto il terreno e i germogli, anche se dopo un tempo non breve, alla fine sono sbocciati. Ritengo sbagliato considerare gli anni Cinquanta come un tempo grigio di transito. Vanno studiati piuttosto come un tempo di incubazione.

Penazzato è stato un seminatore. Che ha contribuito a portare nella politica dei cattolici contenuti di giustizia, attenzione alla crescita democratica del Paese, impegno di promozione sociale, sostegno ai lavoratori e alle classi più umili per l’affermazione di diritti universali.

Penazzato aveva una forte sensibilità politica. Teneva lo sguardo sull’orizzonte dell’Italia. Le Acli per lui dovevano essere parte, strumento, leva di un progetto di società.

Quando nasce la Cisl, il destino delle Acli si fa incerto. Molto incerto. Al sindacato ormai ci pensa la Cisl, alla politica la Dc, per la formazione dei lavoratori può bastare l’Azione cattolica: questa è l’opinione di Luigi Gedda, che in quel momento non era personalità di poco conto.

Ma Penazzato – Penazzato più di chiunque altro, certamente più di Pastore – comincia a lavorare dalla sua postazione di segretario centrale per dare una nuova missione alle Acli. Per rilanciarle senza perdere una goccia dell’organizzazione e dei servizi fino a quel punto costruiti.

E’ un lavoro complesso quello del “rifondatore” Penazzato. Complesso perché dislocato su diversi fronti: il partito, il sindacato, l’associazionismo cattolico. In ambito ecclesiale non mancavano freddezze verso le Acli. Le Acli avevano però un alleato molto importante: Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI.

Monsignor Montini certifica nel settembre del ’49 la rinnovata investitura delle Acli, con la famosa lettera in cui le definisce “cellule dell’apostolato cristiano moderno”. Faticoso parto. Montini aiuta Penazzato ad abbassare gli steccati che avrebbero potuto delimitare, fino a tagliare il campo d’azione aclista. Mette l’accento sul precipuo compito delle Acli di diffondere la dottrina sociale tra i lavoratori, ma spiega anche che la dottrina sociale è “condizione di un innovato ordinamento sociale”, in cui assicurare “secondo giustizia il riconoscimento dei diritti e la soddisfazione delle esigenze materiali e spirituali dei lavoratori”.

E’ la finestra sulla società e sulla politica che Dino Penazzato voleva fosse tenuta aperta. Con la forza della loro presenza sociale e della loro autonomia, le Acli avrebbero dovuto aprirla ancora un po’ di più. Al congresso straordinario delle Acli del ’48, a Penazzato tocca la relazione organizzativa, la più importante. Di fronte alla Libera Cgil che sta per diventare Cisl, viene ratificato il cambio di ragione sociale: da corrente sindacale cristiana a “movimento sociale dei lavoratori cristiani”. “Un movimento – spiega Penazzato dalla tribuna congressuale – autonomo, completo, fatto di lavoratori e pertanto guidato da lavoratori, un movimento che si pone (…) nel quadro della vita italiana di oggi, con una originalità di caratteristiche e con una ampiezza di possibilità che lo rendono tra i più preziosi strumenti per l’elevazione più organica e concreta della classe lavoratrice”.

Sottolineo quelle due parole: “ampiezza di possibilità”. Sono la premessa del programma di Penazzato, lo spazio vitale di un movimento che intende acquisire progressivamente forza con la crescita del mondo del lavoro. Insomma, le Acli stanno pienamente, con spirito di unità, nell’articolata compagine cattolica, ma Acli non accettano limiti politici predefiniti ai compiti che liberamente si danno.

Penazzato non si preoccupa soltanto degli spazi da occupare nella galassia cattolica. Ritiene piuttosto che “l’azione sociale cristiana” possa portare la classe lavoratrice, tutta intera, verso traguardi più elevati. L’azione sociale cristiana è in aperta concorrenza con l’ideologia marxista e la politica dei comunisti: la contrapposizione però – questo è un punto cruciale – non deve mai portare i credenti, e le loro articolazioni politiche, a sottovalutare la questione sociale, a consegnarla ad altri. Si finirebbe per fare della comunità cristiana un alleato di fatto delle forze conservatrici e padronali, di chi invoca un blocco d’ordine, di chi ha poca fiducia nello sviluppo della democrazia e nell’allargamento delle sue basi.

“Azione sociale” diventa nel ’49 il titolo del settimanale delle Acli. Dino Penazzato ne è il primo direttore.

Penazzato scrive nel ’53 – quando non è ancora presidente – un libro dal titolo provocatorio: “Declino della proprieta?”. Il sottotitolo ne svela il contenuto essenziale: “La proprietà è al servizio dell’uomo, non l’uomo della proprietà”. Ne leggo alcune righe per mostrare quanto forte sia l’impegno nel confutare i paradigmi delle destre: “Nessuno nega i risultati economici del capitalismo (…), ma essi non possono legittimare il sistema quale si è venuto definendo, con l’assoluto predominio del capitale e la sua strapotenza non solo economica ma politica, la netta posizione di inferiorità morale ed economica delle classi lavoratrici, la frequente compressione del lavoro, l’enorme disparità delle ricchezze”.

Con il convegno di Perugia del ’52 Penazzato compie un ulteriore passo in avanti nella sua strategia di rafforzamento dell’autonomia politica delle Acli (pur all’interno del perimetro cattolico). Da “movimento sociale dei lavoratori cristiani”, Penazzato giunge a definire le Acli “movimento operaio cristiano”. La spinta proveniva dalle Acli più inserite nelle realtà di fabbrica come quelle milanesi. Del resto, esisteva già un “Moc” in Belgio: movimento sindacale che era parte del Partito social-cristiano. Il tutto genera preoccupazione nella Gerarchia e nel mondo confindustriale.

Due sono le ambizioni di Penazzato: da un lato ampliare il respiro delle Acli tanto sul piano formativo e operativo quanto sul piano politico generale. Dall’altro disegnare un ruolo non più difensivo all’interno della classe lavoratrice. Per Penazzato il movimento operaio nel suo insieme è la leva principale dell’emancipazione democratica e della giustizia sociale nel Paese: per questo le Acli devono competere per guidarlo, sfidando le forze social-comuniste sul loro terreno.

Tra gli assistenti ecclesiali delle Acli c’è apprensione. Civardi, Boschini, Quadri si scrivono e si domandano se il “movimento operaio cristiano” sia davvero compatibile con le indicazioni date da monsignor Montini. Se il tessuto tirato da Penazzato non rischi di strapparsi.

Il congresso di Napoli nell’autunno del ’53 pone nel titolo le “attese della classe lavoratrice”, evidentemente non pienamente soddisfatte dai governi che si sono succeduti. Ferdinando Storchi è confermato presidente. Ma a inizio ’54 accade l’imponderabile che porta Penazzato alla presidenza. E’ lo scandalo Cuchel a provocare la slavina che travolge Storchi. L’amministratore delle Acli, Ignazio Cuchel, si rende responsabile di gravi ammanchi, investimenti sbagliati e distrazioni di denaro a fini personali. Nel mondo cattolico si cerca di silenziare il più possibile l’eco dello scandalo. Storchi però deve pagare il prezzo delle dimissioni per dimostrare che le Acli sono pronte a voltare pagina.

Penazzato propone Mariano Rumor, anch’egli vicentino, come presidente delle Acli. Rumor era stato appena nominato vicesegretario della Dc e declina l’invito. Penazzato prevale su Alessandro Buttè con 23 voti del consiglio nazionale contro 17.

In realtà non comincia una nuova epoca perché la guida di Penazzato era già nei fatti iniziata da tempo. Ma d’ora in poi Penazzato dovrà affrontare il vento contrario dalla prima fila del gruppo.

Era vicentino, gli piaceva andare in bicicletta. A Roma, agli esordi, raggiungeva la sede delle Acli in bicicletta. Aveva un portamento distinto, ma era capace di cordialità una volta superata la soglia delle relazioni formali. Gli piaceva mangiare il pesce a Ostia. Scriveva personalmente con cura tutti i suoi interventi congressuali e gli articoli. Un’abitudine, la scrittura, coltivata fin da ragazzo.

La sua stessa creatività – tema del prossimo intervento di Erica Mastrociani – ha radici nella scuola, nella gioventù a Vicenza. La partecipazione ai gruppi cattolici lo ha tenuto separato, lo ha protetto dal proselitismo di regime. Penazzato era un frequentatore assiduo del teatro Olimpico di Vicenza, capolavoro del Palladio, e annotava su un quaderno i commenti alle varie opere di prosa. Chissà se ne troveremo traccia cercando nel nostro archivio…

In vari modo, comunque, le Acli hanno beneficiato della vena creativa di Penazzato. Sembra certo, ad esempio – così scrive Rosati – che il vero autore dell’inno delle Acli sia proprio lui, Penazzato, celandosi dietro lo pseudonimo di Cavaliere: “Verso il ciel alto e possente /s’alza il canto del lavor /A raccolta chiama e accende / la speranza in ogni cuor / Una lotta lunga e dura / segnò il nostro progredir / Ora siam forza sicura / che va incontro all’avvenir…

Nel ’55 la sua parabola tocca probabilmente il picco. Il Primo maggio le Acli celebrano il loro decennale di vita (appena un po’ posticipato). Su questo evento concentrano tutti gli sforzi.

Le Acli rigenerate, con la nuova identità, si presentano al mondo. E mostrano la loro forza. Centomila persone in piazza del Popolo la mattina, replica il pomeriggio in piazza San Pietro con Pio XII. In quel primo maggio il Papa dedicò la festività del lavoro a San Giuseppe Artigiano. Le Acli avrebbero preferito Gesù Divino Lavoratore. Ma la sanzione canonica del Primo maggio, rivestita di così tanta solennità, contribuì a ingigantire il trionfo per le Acli.

Fu un trionfo anche perché Penazzato portò a quell’appuntamento non una versione edulcorata delle Acli, ma esattamente ciò che aveva elaborato e costruito. Senza sconti per i frenatori esterni. “Siamo qui – disse in piazza del Popolo – per festeggiare la forza ideale e le opere del nostro movimento, per riconfermare il peso e la necessità di un movimento operaio cristiano che, operando con piena fedeltà e dedizione agli interessi morali e materiali dei lavoratori, ne orienti l’azione e divenga (…) la guida del moto di ascesa e di progresso della classe lavoratrice”.

Accanto a Penazzato c’erano vescovi e ministri. C’era anche Mario Scelba, presidente del Consiglio, che non poté far altro che dichiararsi aclista. Aclista da sempre.

Quel discorso di Penazzato è passato alla storia delle Acli come il discorso della triplice fedeltà: alla classe lavoratrice, alla democrazia, alla Chiesa. Concetti paradigmatici a cui le Acli si sono richiamate nelle loro diverse stagioni, talvolta per difendersi, talvolta per andare all’attacco. Difficile trovare un evento più emblematico per il “rifondatore”.

Che si presentò al congresso del ’55 con un obiettivo assai ambizioso, così riassunto nel titolo: “Un grande movimento cristiano guida della classe lavoratrice”. Era una sfida anche alla Dc e alla Cisl.

Nel ’56, dopo la repressione sovietica in Ungheria, Penazzato convoca un consiglio nazionale per richiamare i lavoratori cristiani all’impegno, politico, ideologico, morale, contro il comunismo. Contro il comunismo sovietico ma anche contro le ipotesi di vie nazionali al socialismo. La relazione di Penazzato è l’espressione più compiuta, e la più intransigente, del suo anticomunismo democratico. “Il comunismo non può mantenere le sue promesse”, afferma Penazzato. Ma ribadisce: “Il movimento operaio non si identifica con il comunismo”. “Noi combattiamo il comunismo con l’impostazione originaria e costruttiva del movimento operaio cristiano. Lo combattiamo ponendoci, ponendo le Acli, le Acli come idea e le Acli come forza, come termine sostitutivo del mito marxista”.

Nell’esprimere la condanna più ferma del sistema comunista, Penazzato non retrocede nel suo programma sociale. Anzi, lo riafferma con più forza, contro le tendenze conservatrici presenti nel governo stesso del Paese. E non estende mai la condanna delle ideologie alle persone che le esprimono.

E’ questo un tratto importante della personalità e della sensibilità di Penazzato. Del resto, la famiglia d’origine lo aveva allenato al dialogo, al rispetto, a riconoscere sempre le buone intenzioni dell’altro. Il padre di Penazzato aveva simpatie socialiste. La sorella maggiore, Nilla, seguì la vocazione che la portò a prendere i voti nella congregazione delle dorotee e a dedicare tutta la vita ai bambini disabili. Il fratello secondogenito, Aldo, tipografo, fu militante comunista. Venne perseguitato dal fascismo e carcerato. Dino non smise mai di seguire e di voler bene al fratello, fin quando questi morì precocemente.

Fermezza e umanità. Come quando la notizia della morte di Giuseppe Di Vittorio piombò sul congresso delle Acli in pieno svolgimento a Firenze, il 3 novembre 1957. Penazzato prese la parola commosso: “Di Vittorio era uno dei combattenti più tenaci, più impegnati, più amati dai lavoratori. Anche se stiamo su posizioni diverse da coloro che raccoglieranno la sua eredità, pur tuttavia sentiamo l’esigenza dell’unità dei lavoratori nelle comuni battaglie”. Pausa. “Eleviamo un pensiero fraterno e cristiano alla memoria di questo combattente sincero e generoso (…) Siamo vicini al combattente caduto, alla sua famiglia, ai suoi compagni di lavoro e di lotta, nel cristiano cordoglio e nell’elevare un pensiero a Dio affinché anche l’anima di Di Vittorio riposi il Lui”.

Monsignor Quadri recitò in latino l’eterno riposo.

Il tutto non passò inosservato. I comunisti erano allora scomunicati. E le Acli da sempre sospettate di sinistrismo. La destra clericale diede il peggio di sé, invocando per quelle preghiere addirittura sanzioni canoniche contro le Acli e i loro assistenti, tanto che l’Osservatore Romano fu costretto a intervenire spiegando che non si era trattato di una “preghiera pubblica” (se così fosse stato, sarebbe stata illegittima) ma di una preghiera “semipubblica” e pertanto al riparo da sanzioni. Una difesa, agli occhi di oggi, non meno imbarazzante della ridicola accusa.

Le Acli costituivano un problema. Erano bersaglio di critiche di settori della Chiesa, della Dc, di giornali della borghesia. Penazzato non si esponeva molto su temi di schieramento, anche se era evidentemente solidale con le componenti democristiane che guardavano a un possibile centrosinistra futuro.

Teneva duro però sull’intervento pubblico in economia, per raddrizzare le storture del mercato. Sosteneva lo Schema Vanoni che doveva preparare le politiche della programmazione. Si batteva per i diritti dei lavoratori, per alzare i loro salari, per migliori condizioni e orari in fabbrica, per eliminare lo sfruttamento delle donne e dei minori.

E teneva duro sulla democrazia. Soprattutto su quell’idea di fondo: la democrazia si consolida soltanto se è capace di garantire equità e opportunità, se è in grado di ridurre squilibri e diseguaglianze. Il principio di uguaglianza, sancito dalla Costituzione, non può e non deve avere soltanto una base giuridica: è necessaria anche una base sociale. “Le Acli per una politica sociale di rinnovamento democratico” è il titolo emblematico del congresso nazionale del ’57, a Firenze. “L’obiettivo della politica di sviluppo – dice Penazzato nella relazione – non può al fondo esaurirsi in un fatto produttivo-occupazionale, anche se questo è pregiudiziale: il fine di quella politica è il rinnovamento, e ciò vuol dire altresì un sistema di rapporti sociali più adeguato, un riordinamento non solo nella distribuzione del benessere, ma nella redistribuzione del potere, che è in fondo garanzia di libertà ed espansione”.

Riequilibrare il “potere” in favore dei lavoratori: le Acli alzavano l’asticella del confronto e non potevano non suscitare reazioni. Alla parte conservatrice della Chiesa, assai influente all’epoca, non andava giù la fedeltà alla “classe” lavoratrice. La parola “classe” era indigesta, anzi per alcuni inaccettabile. Il solo nominare la classe spezzava l’orizzonte armonico, interclassista, che veniva presentato come il vero traguardo della dottrina sociale.

Ma c’era un altro, grande problema: lo spazio politico delle Acli, il loro pensare politico. L’accusa era che le Acli di Penazzato (e di Livio Labor che stava crescendo alla sua ombra) stavano travalicando la propria missione. Stavano uscendo dai binari (denuncia che si ripeterà nel tempo!)). Con una particolare sottolineatura: avendo il mandato della Chiesa, avendo gli assistenti, ogni loro scelta finisce per coinvolgere la Chiesa intera.

C’è un processo latente alle Acli, tra il Vaticano e la Cei, che attraversa gli anni Cinquanta. Non diventa scontro pubblico per preservare l’unità politica ed è il Papa stesso che mette la sordina alle reazioni più estreme. Ma viene il momento in cui a Penazzato è presentato il conto.

La causa scatenante è la nascita della corrente di “Rinnovamento democratico” in seno alla Dc, a cui Penazzato lavora insieme a Pastore, divenuto ministro. La corrente avrebbe dovuto unire le forze della Cisl, allora schierate con “Forze sociali”, con quelle delle Acli, allora disperse in varie correnti (Buttè con la “Base” di Marcora, Pozzar con “Forze sociali”, altri con “Iniziativa democratica” insieme a Rumor), e avrebbe dovuto ulteriormente allargarsi, raccogliendo altre sensibilità cristiano-sociali.

Siamo agli ultimi giorni del 1958. Labor scrive che ci vorrebbe un leader come Benigno Zaccagnini a guidare questo nuovo gruppo. Ma la riunione d’esordio non va benissimo. In prima fila ci sono Pastore, Rapelli e Penazzato. La corrente non riesce a espandersi. E l’attacco alle Acli stavolta diventa frontale. Parte da “Il quotidiano”. L’autore dell’articolo, Gianni Baget Bozzo, confesserà in seguito che l’input gli era arrivato nientemeno che dal cardinale Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio.

“L’adesione formale delle Acli a una corrente di partito – scrive Baget Bozzo - fa pensare che un senso politico si sia voluto dare alle Acli: quello di organismo di rappresentanza di classe all’interno delle istituzioni cattoliche”. Qualcosa di simile a un cavallo di Troia. Penazzato capisce che l’offensiva non si fermerà. Il paradosso è che lo scontro finale per Penazzato avviene su tema, su un nome “incompatibilità”, che nella storia delle Acli ha assunto nel tempo una valenza decisamente positiva. Non è un caso che a proporla per prime furono le componenti più avanzate del movimento aclista. L’incompatibilità tra cariche di vertice nel movimento e cariche parlamentari è una regola che ha poi esaltato l’autonomia delle Acli. Non ha represso il suo senso della politica, anzi lo ha sviluppato negli anni Sessanta spezzando la cinghia di trasmissione. Una strada successivamente intrapresa anche dai sindacati.

Tuttavia per Penazzato quell’aut aut, su cui si allinea tutta la Gerarchia, costituisce una ingerenza, mira a comprimere l’iniziativa politica aclista.

Penazzato era al secondo mandato parlamentare. Era stato eletto nel ’53 e nel ’58. Penazzato prova a resistere alla pressione esterna della Chiesa e alla reazione interna di Livio Labor, che raccoglie con sé quasi una metà delle Acli intorno a una istanza di cambiamento. Penazzato voleva che la corrente di “Rinnovamento democratico” servisse anche a unire le Acli, a ricomporre la sua rappresentanza (allora divisa) dentro la Dc attorno a un progetto di forte impatto, un progetto di governo del Paese.

Si ritrovò che il dardo dell’incompatibilità, scagliato dall’esterno, fece saltare anche l’equilibrio che Penazzato stava cercando dentro le Acli. Il suo avversario interno divenne l’uomo – Livio Labor - che forse più di tutti condivideva la sua impostazione di fondo, la sua idea di politica, la sua idea di Acli che giocano un ruolo rilevante su contenuti politici rilevanti. Che stanno nella Dc ma guardano agli equilibri del Paese.

Penazzato in congresso accoglie l’incompatibilità (non poteva rifiutare), ma fa votare le deroghe e prova ad adottare una applicazione graduale. Labor si candida contro di lui. Vince Penazzato 36 voti contro 24.

La Segretaria di Stato reagisce sospendendo immediatamente il contributo delle Opere di religione alle Acli. Penazzato non può più andare avanti. E’ sfiduciato dalla Gerarchia (la storia si ripeterà in futuro). Sceglie Ugo Piazzi per la successione. Piazzi prevale su Vittorio Pozzar (sostenuto da Labor) con un solo voto di scarto: 32 a 31.

Le Acli sono spaccate in due. La minoranza che si riconosce in Labor esce dagli organi esecutivi. E dà vita a un giornale: il Moc, movimento operaio cristiano, la formula più identitaria delle Acli di Penazzato. Arriva a criticare Piazzi anche per la troppo debole reazione al governo Tambroni. Nel dicembre del 1961 Labor diventerà presidente delle Acli, e si aprirà una nuova stagione. Una stagione che Penazzato aveva preparato, assai più di quanto non dicano gli ultimi contrasti interni.

Da sottosegretario al Tesoro e al Bilancio, nei due anni successivi, ha lavorato con le idee maturate nelle Acli. La Nota aggiuntiva di La Malfa porta anche il suo contributo nella fase preparatoria.

Dino Penazzato morì a 48 anni e mezzo. Le Acli gli devono molto. Oggi ci appare, nel linguaggio, nei temi concreti affrontati, figlio di un tempo passato. Ma ci sono questioni che affiorano, e poi si reimmergono, come fiumi carsici. La politicità di un movimento che vuole mantenere le proprie radici nella società. Il lavoro continuo di ricomposizione delle preziose diversità presenti nel movimento aclista. La responsabilità autonoma dei laici credenti. L’idea, la speranza di un mondo migliore, di una democrazia che si radica nell’equità sociale e nella partecipazione attiva di chi è più sfavorito. In realtà, rileggendo Penazzato si trovano ragioni che mai sono venute meno. Anche per merito di chi ha raccolto il suo testimone.

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