Afferrare il lembo del mantello di Dio

di Eugenio Mazzarella

«La politica è l'arte del possibile, la scienza del relativo». È la nota frase-manifesto di Otto von Bismarck che fissa la politica come Realpolitik. La riprendo da un libro di Henry Kissinger, certamente nel bene e nel male il più influente statista americano non velleitario degli anni ’70 del secolo scorso. Lo faccio perché è una frase che sembra chiudere prima di cominciare ogni discorso su “politica e trascendenza”, suonando come una sentenza su ogni tentativo di pensare la politica in qualche rapporto con la trascendenza, anche in senso “debole”, figurarsi “escatologico”; con qualcosa, cioè, che trascenda le condizioni date da gestire al meglio della capacità da chi la politica la agisce nella realtà, piuttosto che pensarla.

Empirismo scettico del realismo in politica, potremmo definire l’orizzonte di senso della frase di Bismarck, cui non faceva difetto una esperienza nei conflitti sociali e nelle relazioni internazionali: «Non c'è vocabolo di cui non si sia oggi fatto così largo abuso come di questa parola: libertà. Non mi fido di quel vocabolo, per la ragione che nessuno vuole la libertà per tutti; ciascuno la vuole per sé». Per anticipare, potremmo dire che trascendenza in politica potrebbe voler significare trascendere questa privativa della libertà in capo a sé stessi.

Eppure a questo realista scettico, a Bismarck, si deve un’osservazione di straordinaria umiltà, una capacità potremmo dire seguendo l’etimo di “mettere l’orecchio a terra”, che proprio nell’empirismo degli accadimenti vede farsi avanti, per l’azione politica, lo spazio della trascendenza, un andare avanti, un afferrare l’oltre: «L'uomo di Stato non è mai in grado di creare qualcosa da sé; egli può solo aspettare e tendere l'orecchio finché non ode il passo di Dio risuonare negli eventi; a questo punto egli può balzare in avanti e afferrare un lembo del suo mantello – questo è tutto».

In verità, alla luce di questa ultima notazione, potremmo leggere proprio nella frase-manifesto di Bismarck – «La politica è l'arte del possibile, la scienza del relativo» – la traccia di un’evidenza per certi aspetti contro-intuitiva: che la politica è sempre trascendenza, o come star dentro la trascendenza che c’è, che è in atto, in modo più o meno adesivo, conservativo, o abitare o provare ad aprire la porta a un’altra trascendenza, a un altro possibile, che matura o va oltre il possibile che è reale, il relativo, il sistema di relazioni tra uomini e cose, il possibile in atto. Per dirla con Bismarck, il mantello dell’epifania, il mantello di Dio è sempre mosso, cammina con noi, perché è il mantello della storia, che ora ci copre, ora non ci basta più, e proviamo a tirarne un lembo, ora per coprirci noi, ora per dividerlo con altri.

Se il realismo non basta ad affrontare la realtà

Il problema è che vogliamo farne di quel mantello. Di chi e/o di quanti deve coprire le spalle. È chiaro che qui già stiamo pensando a qual è il possibile che vogliamo nel regno del possibile. Perché tutto è possibile nel sistema del relativo, la realtà, che non conosce assoluti: la trascendenza che si stringe a noi, o quella che va oltre di noi, a vincere la diffidenza di Bismarck per l’uso vacuo – vuoto degli altri – della parola libertà, se questa parola sta in capo all’autorealizzazione dei singoli e dei popoli.

Vincere questa diffidenza non è impossibile, o quanto meno può essere un compito. E anche se questo compito non andasse universalmente a buon fine, sarebbe un modo onesto di limitare il disonore nella tensione tra il nostro essere e quello che il nostro essere dovrebbe essere, se riconoscessimo all’essere degli altri il peso e la sostanza del nostro essere per noi stessi: a loro quanto meno la nostra stessa affezione a noi stessi. Che a loro per la comune nostra natura spetta quel che naturalmente riconosciamo a noi stessi. Questo dramma dell’affezione a sé, al nostro noi, da riconoscere come umana, o non meno umana della nostra, negli altri, con-vivendoci, nel senso di saperla vivere insieme, di saperci trovare sufficienti ragioni per viverla insieme quest’affezione dell’umano a sé stesso – se volete una lettura kantiana, ma prima ancora evangelica del homo sum, humani nihil a me alienum puto di Terenzio – è il dramma dell’etica e della politica. Il dramma di come abitare la trascendenza del nostro esserci presso gli altri come essere-nel-mondo, per stare a una formulazione classica.

Come trascendenza, l’esserci è lo spazio del relativo, non nel senso di un in-essere, che siamo immersi in una rete di relazioni, che abbiamo relazioni – questo sì anche, ma in modo derivato –, ma nel senso che siamo relazione agli altri e alle cose; ci costruiamo, ci edifichiamo, ci tiriamo su a noi stessi nel relativo, nella relazionalità di cui siamo intramati, che è la nostra sostanza.  Sul piano ontico, la trascendenza è questo. Niente di più, niente di meno. E il nostro compito è tenere i piedi, e tenerci in piedi, in modo sostenibile in questa trascendenza. Lo ha detto in modo eccellente, intuitivo Ortega y Gasset nel 1914, nelle Meditazioni del Chisciotte: «Io sono io e la mia circostanza, e se non salvo la mia circostanza non salvo neanche me stesso».

Con questa frase Ortega era consapevole di aggiornare un lascito direttivo della filosofia, in ispecie platonica: “salvare i fenomeni”; dove salvando i fenomeni, cioè le mie condizioni, la mia circostanza, io salvo me stesso, il fenomeno che sono – motivo per cui l’impresa conoscitiva, filosofia e scienza, e ogni impresa umana, anche quella politica, è sempre un’impresa esistenziale.

Pensare l’ecumene umana

Non ho molto tempo, e abbrevio in modo verticale piombando sul tema che ci siamo dati: politica e trascendenza. E la domanda diventa: come è possibile salvare il fenomeno del politico come la somma delle mie circostanze umane in bilico sulla corda tesa amico-nemico, sospese tra solidarietà cooperativa ed effrazione individuale o collettiva (di interesse o di potenza) alla comune trascendenza umana, al nostro comune destino di stare gli uni presso gli altri per essere uomini, “animali politici”?  E come è possibile oggi, quando la mia circostanza umana non finisce alle porte della città, della valle o alle frontiere del mio paese, ma è diventata la sola e unica circostanza umana di un mondo globale dove un battito di ali di farfalla in un mercato finanziario in Asia può decidere della tenuta di un Paese, o dell’uscita dal mercato di un’intera catena di valore, all’altro capo del mondo? O per dirla in altro modo, è possibile trascendere l’uso vacuo della grammatica della libertà umana, la propensione a svuotare a favore della mia libertà la libertà degli altri, l’eguale dignità alla mia della loro affezione a sé stessi? È possibile svuotare la fonte dell’inimicizia? Sottrarsi all’ipocrisia discorsiva della grammatica parlata del mondo?

 irrealistico, o forse è il bisogno realissimo di una salvezza della mia circostanza che non finisce alle mura di casa ma è in debito all’intera connessione di sintassi e di senso del mondo oggi come mondo globale? Abbiamo una pratica di mondo per questo bisogno? Penso di sì. E sarebbe l’aggiornamento all’ecumene umana – una profezia che oggi è all’ordine del giorno – dell’annuncio di due millenni fa che dall’ipocrisia del mondo, se vogliamo, possiamo trascendere. Magari pagando il prezzo di restarvi trascendendolo.

È chiaramente il “in questo mondo, ma non di questo mondo” insegnato da Paolo alle comunità cristiane delle origini perché fossero in grado, alla sequela di Cristo, di gestire pro tempore la disappartenenza all’ipocrisia del mondo dell’uomo spirituale che il Maestro era venuto ad annunciare, annunciando anche il carico d’odio del mondo che chi l’avesse seguito si sarebbe caricato: la fatica a non essere del mondo se al mondo si annuncia un altro modo di esservi. Postura complicata, che è salita su una croce, ma che da allora un po’ di strada nel mondo l’ha pure fatta.

In politica, trascendere è assumere questa postura. Dare torto al rassegnato cinismo di Bismarck, di quelli che hanno capito tutto, ma non vedono niente, dopotutto, nelle pieghe del mantello della storia che si muove, perché non vedono niente oltre il tutto che vedono. Chi l’avrebbe mai detto duemila anni fa che Onesimo avrebbe potuto essere restituito a Filemone non come res oggetto di dominica potestas ma come “fratello in Cristo”?

Ecco la trascendenza in politica è questo: vedere quello che non c’è negli occhi degli altri e vederlo per loro. Al di là del calcolo di tutte le condizioni date, per tirarle dalla propria parte, trascendenza in politica potrebbe voler dire vedere la condizione che non c’è ancora – quella in cui ci siano, nell’onestà magari del compromesso, le parti di tutti, anche di quelli che non ci sono ancora, quelli che sono nel grembo del futuro e porteranno in grembo il futuro del futuro.

Se dovessi proporre un esempio di questa trascendenza politica dal mondo come c’è, perché questo mondo non salti in aria, e stracci tirato da ogni parte il mantello della storia, indicherei l’agenda – le cose da fare – di Francesco con Laudato sì e Fratelli tutti. Un’agenda sempre più urgente alla luce di una modernizzazione aberrante agita dalla globalizzazione, i cui rischi erano già stati denunciati a Monaco nel 2004 da Jurgen Habermas e Joseph Ratzinger. Una globalizzazione oggi nel vicolo cieco, in Ucraina, di un confronto tra ragioni imperiali che si avvertono in declino a confronto di quelle emergenti, sorde alla necessità di un compromesso che non ammetta il sostegno delle cannoniere a definire gli equilibri di potenza, assodato che il mercato globale, con buona pace delle distopie del liberalismo, non può essere un mercato perfetto, non corretto dalla mano pubblica. E questa mano pubblica non può che essere quella di un’onesta cooperazione internazionale, non potendo questa mano essere quella militare.

Una pretesa insostenibile il suprematismo imperiale, da qualsiasi parte venga, per un mondo dove nello spazio di cinquant’anni sono entrate nella grande storia, raggiungendovi quella occidentale, civilizzazioni che per secoli ne erano state escluse. Eppure, in Ucraina, ma non solo, è una pretesa in atto.

 La guerra diabolica e il magistero di Francesco

La contro-agenda geopolitica di Fratelli tutti è questa antica pretesa che ci chiede di trascendere. Indicando al mondo multipolare delle grandi civilizzazioni rientrate, con la globalizzazione, a pieno titolo nella Grande storia, raggiungendovi la civilizzazione occidentale, che vi si era installata da secoli, la via dell’ecumene umana stretta a riconoscersi come tale mai come prima nella storia. La via del cosmopolitismo unico oggi possibile: fratelli tutti. E in un ambiente amico, tirato fuori dall’usura dell’antropizzazione. Questa è la sfida. Qualche realista politico potrebbe ricordare che è un aggiornamento dell’utopia di Immanuel Kant Per la pace perpetua. Lo so, ma so anche che Kant aggiornava un’altra utopia, quella dell’ecumene umana annunciata dal cristianesimo, che qualche passo, zoppo, nel mondo lo ha pur fatto. Istituendo per altro in Occidente bene o male la più grande piattaforma di diritti umani che si sia vista nella storia. E per scendere nella cronaca dell’Ucraina oggi questa utopia, che trova insensato il confronto Est-Ovest sul suolo dell’Europa cristiana, è, se ci si pensa un attimo, nient’altro che l’aggiornamento di un operoso trascendimento della “guerra fredda”, la Östpolitik di Agostino Casaroli ispirata alla Pacem in terris di Giovanni XXIII, che pure qualche frutto pratico lo ha dato, aiutando a risolvere una grave crisi degli accordi di Yalta fondamentalmente senza guerre.

Ecco, noi abbiamo bisogno in Europa di continuare a svolgere il filo di quell’ispirazione. L’ingresso o meno dell’Ucraina nella Nato come casus belli – qui mi permetto di scendere nell’attualità della trascendenza dal mainstream geopolitico che siamo costretti a subire – è un reperto argomentativo da guerra fredda, senza senso. A che serve questo ingresso? Ad avere un Paese in più schierato con l’Occidente atlantico in un confronto (inevitabilmente a rischio di escalation atomica) con la Russia post-sovietica? E ci sarebbe bisogno dell’allargamento della Nato per questo scenario più demenziale che nefasto? Quando tutta la geopolitica della deterrenza atomica sa benissimo che bastano due pazzi criminali che premano un bottone, perché non ci sia più per tutti – neanche per i 'neutrali' geopolitici, affacciati alla finestra del confronto – lo stesso spazio fisico della geopolitica, cioè il pianeta? Sarebbe stato molto più sensato, nei trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, lavorare all’inclusione della Russia in uno spazio ex Nato come strumento di interdipendenza globale dello spazio dell’antica civilizzazione cristiana, ai fini di una stabilizzazione multipolare del mondo in senso cooperativo.

Nel lungo periodo, e neanche poi tanto, visto che la nuova frontiera del Pacifico è da tempo proiettata su scala globale, le tensioni Usa-Russia sono assolutamente illogiche. Tensioni illogiche sul piano della derivata storica della globalizzazione in atto, e tutte centrate su una sia pur pesante logica congiunturale (alcuni decenni da gestire con saggezza). Ma anche tensioni che, sottratte al prezzo del petrolio e del gas, ai pesi relativi temuti da quella o questa economia, americana ed europea, sono del tutto incomprensibili all’uomo comune, alla sua speranza di pace. O fin troppo comprensibili se il metro di giudizio diventa non l’interesse all’interdipendenza comune dei popoli e delle loro economie, un’assicurazione sulla vita per tutti, ma l’interesse più o meno predatorio di una parte o di un’altra a gestire e guidare quest’interdipendenza necessaria.

Eppure, la globalizzazione può ancora essere una grande occasione, se le leadership politiche vorranno essere amiche dei loro popoli e le dirigenze economiche, disciplinando e facendo tacere le pulsioni predatorie, contribuiranno a far diventare globale l’economia sociale di mercato di cui ha bisogno l’interdipendenza pacifica del pianeta. Queste classi dirigenti hanno la grande opportunità di chiudere una volta per tutte il grande mattatoio della storia universale, che ormai non è più neanche razionalizzabile, cioè pensabile con un macellaio vivo che resti al bancone. Per capire la necessità di trascendere le dinamiche della globalizzazione in essere, che continua quella dei Fenici, mercanti in armi, per cui non ci sono più porti, gli strateghi delle varie cancellerie vadano al cinema a vedere Don’t Look Up di Adam McKay, o si siedano in poltrona a leggere La strada di Cormac McCarthy. E qualche cretino di successo non ci venga a dire che, poiché la globalizzazione economica non va secondo i piani, e gli “altri” sono competitivi come noi, anzi ci passano davanti, nella globalizzazione bisogna starci ognuno con il suo “supermercato”, difeso e sorvegliato agli ingressi da guardie armate; che, insomma, è l’indirizzo politico-militare quel che va imposto al mercato, che non deve essere più unico, della globalizzazione. E che la contrapposizione tra ricchi e poveri vada a quel paese, perché conta quella tra democrazie e autocrazie, cioè tra chi nei due blocchi decide chi sono i ricchi e chi sono i poveri. Che è esattamente il mondo, la divisione del mondo, il diabolico che vi è in essere, alla prova della trascendenza della politica.

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Eugenio Mazzarella è professore ordinario di Filosofia teoretica presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II

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