I valori, la speranza e il mutismo della politica 

di Laura Pennacchi

Da qualche tempo la mia ricerca – esistenziale e teorica – si è venuta concentrando su una problematica, “la teoria e la pratica dei valori”, che ha molto a che fare con la questione “politica e trascendenza” e che nei miei più recenti impegni ho tentato di declinare cercando le tracce di un “nuovo umanesimo”. A partire dalla osservazione che i problemi e le domande che oggi si pongono hanno tutte un forte contenuto etico-politico, il che da una parte dà alla denunzia dei guasti sociali e politici un forte significato morale, dall’altra dà alla moralità un elevato contenuto critico: l’agire morale si presenta tout court come “un agire critico”. Fatto si è che quando ho letto nel testo di Claudio Sardo le parole “amore, fraternità, solidarietà, accoglienza, amicizia” ho fatto un balzo di gioia perché ben pochi oggi, al di fuori di un ambito letterario o strettamente religioso – dove grandeggia papa Francesco –, hanno il coraggio di ricorrervi così apertamente. E mi sono tornate in mente Rosa Luxenburg – che nel 1919, in carcere per la Rivoluzione spartachista dei consigli, poco prima di essere assassinata, scrive: “La cosa principale è essere buoni, semplicemente essere buoni, è ancora più importante di avere ragione” – e Hannah Arendt, che legittima la politica solo come amor mundi

Richiamo in modo schematico alcuni processi che mi hanno spinto e mi spingono nell’esplorazione del rapporto “Politica e Trascendenza”:

1) Le aspre e crescenti difficoltà che incontrano le democrazie contemporanee, non solo di tipo materiale (indotte dalla globalizzazione e dalla delocalizzazione della manifattura dai Paesi occidentali, la contrazione dei sostegni del welfare state, l’automazione, l’esplosione della disoccupazione e della precarizzazione gravanti soprattutto sulle donne e sui giovani, la faglia disegualitaria, ecc.), ma anche di tipo culturale (di reattività verso i cambiamenti nei costumi, il ricorso alla violenza, la microcriminalità diffusa) e morale, queste ultime giudicate da Michael Sandel ancora più importanti, perché mettono in gioco, oltre ai wages e agli jobs, la social esteem ferita e tradita e, con la guerra, il significato stesso della vita. Ne sono manifestazione le paure crescenti, l’ansia per la precarietà occupazionale, il timore dell’erosione del benessere, il razzismo, l’intolleranza soprattutto verso i rifugiati e gli immigrati, il nazionalismo identitario, l’acredine anti-egualitaria, il rancore e il risentimento contro l’élite e contro l’establishment. Un movimento complessivo che con l’inaridimento valoriale e la mortificazione dell’idea di “persona”, e la de-soggettivazione conseguente che essi comportano, trascina con sé l’accorciamento del futuro, l’annullamento delle prospettive, il dominio della “post-verità” (ma Thomas Snyder, autore con Tony Judt di “Novecento”, afferma che “post-verità” equivale a “pre-fascismo”). Ne seguono l’atrofizzazione della dimensione del progetto e il prevalere di una politica-contro piuttosto che una politica-per, di una “democrazia dell’interdizione” opposta a una “democrazia del progetto”. Però, disorientamento e smarrimento culturale tradiscono la coesistenza paradossale di una crisi di valori e di una domanda valoriale inevasa. Da un lato chiusura e ostilità all’altro e al diverso, alla relazione, alla solidarietà, che è rifiuto dei valori, indifferenza e perfino assuefazione alle atrocità, anestetizzazione rispetto alle sofferenze altrui. Dall’altro persistenza di domande valoriali, costante echeggiare della nostalgia per la perdita di senso, ricerca dell’ispirazione per il riorientamento. 

2) La convinzione “fuori corrente” che ho maturato è che assai influente su tutto ciò sia stato e sia il “pluralismo dei valori”, conquista irrinunciabile della modernità – in quanto opponentesi al dominio della tradizione e di tutti i vincoli naturalistici: la famiglia, il clan, la razza, la nazione – ma che nella versione del “secolarismo liberale” ha finito con l’identificarsi con una sorta di ostracismo dato alla discussione dei valori nella sfera pubblica, il quale, a sua volta, è in non piccola misura causa dei processi di “de-politicizzazione” e “de-democratizzazione” in atto. Sia chiaro: considero che molto del liberalismo sia da salvare e, soprattutto, non ritengo che liberalismo e neoliberismo siano in assoluta “continuità”, ritengo anzi che tra i due ci sia una profonda “cesura” su cui continuare a indagare. Infatti, tra le cose che dovremmo approfondire c’è proprio come e quanto il neoliberismo abbia influito e influisca sui processi richiamati accentuando la “rottura” con il liberalismo classico, specie quello sociale. In ogni caso, è indubbio che sembra essere arrivato alla sua definitiva imposizione un luogo comune, risalente da molto lontano, che sancisce “de gustibus non est disputandum” e che, assimilando i valori a “gusti” e a “preferenze” – dei quali, appunto, in quanto espressioni del tutto personali e private, non è possibile disputare –, estende ai valori l’interdizione alla disputa e all’esame critico pubblici, da condurre in modi aperti, argomentati, razionali. In questo si è distinta la disciplina economica che ha collocato il fulcro della propria pretesa di configurarsi come “scienza della natura” e non come “scienza morale e sociale” in una triplice ipostatizzazione: a) dell’assimilazione delle preferenze a gusti insindacabili, b) dell’agente economico come individuo auto-interessato, massimizzante, perfettamente razionale, c) della configurazione mezzi-fini, assunta come nucleo universale dell’azione razionale, concentrando tutta l’attenzione sui mezzi e sulla loro massimizzazione e considerando i fini come dati. Con i fini anche i valori in essi incorporati sono assunti come dati e pertanto non sottoposti ad analisi, scrutinio, vaglio critico. Così, però, i valori, e tutte le problematiche ad essi connessi, cessano di essere trattati – cioè discussi, esaminati, vagliati, confrontati – o lo sono solo nella sfera privata in cui sono stati confinati, pertanto in forme necessariamente parziali e insufficienti. Tuttavia, essi non cessano di operare ma, non trattati pubblicamente e discorsivamente, ribollono in calderoni fumanti che periodicamente esplodono in conflitti incomponibili e in fiammate irrazionali in cui ondeggiano i populismi contemporanei. 

3) Il secolarismo liberale, con la speranza di neutralizzare le pulsioni distruttive delle guerre di religione, ha confinato le credenze metafisiche e le convinzioni assolute, dunque anche quelle valoriali, in un territorio extrapolitico e extrapubblico, nella sfera privata, operandone una sorta di privatizzazione che lega la loro apprezzabilità a uno statuto di mutismo politico. Tale privatizzazione e mutismo hanno finito con il coincidere con una sorta di “deflazionismo filosofico”. Il secolarismo, cioè, ritenendo che le questioni poste a decisione pubblica vadano formulate solo in termini che non richiedano di fare appello agli impegni morali individuali (ritenuti per definizione inconciliabili, incomparabili, non negoziabili), induce a calare un velo di trascuratezza e di sottovalutazione su dissensi pregni di credenze significative su cosa è vero e cosa è falso, cosa è giusto e cosa è ingiusto, cosa è moralmente apprezzabile e cosa no. L’esito di questa sottrazione al discorso pubblico delle questioni valoriali si risolve in una difficoltà di loro sottoposizione all’argomentazione, all’esame critico, alla verifica razionale, al dibattito collettivo, al dialogo intercomunicativo. Si può arrivare all’”autodestituzione del soggetto morale che è in noi”, per riprendere l’espressione di Roberta De Monticelli, connessa con la erosione delle idealità che scaturisce dall’”appiattimento sul reale”, perché, quando l’ideale non si oppone più al reale – indicando ciò che il reale dovrebbe essere e non è –, la sua funzione di “segnacontesto valoriale” deperisce. La nozione di ideale e quella di valore, infatti, rimandano l’una all’altra: l’ideale di una cosa è l’insieme di valori che una cosa incarna al suo meglio e il valore trascende sempre l’oggetto (buono) che lo invera. L’appiattimento sul reale, a sua volta, si esprime in molte forme: come “appiattimento del dover essere sull’essere, del valore sul fatto, della norma sulla pratica comune anche se abnorme, e in definitiva del diritto sul potere”. La cecità morale si trasforma in cecità cognitiva e viceversa, così come, da Nietzsche in poi, il nichilismo morale è l’altra faccia del nichilismo logico, il “tutto è permesso” l’altra faccia del “non c’è alcuna verità”. Inoltre, la cecità morale e cognitiva individuale viene a coincidere con una cecità collettiva, l’autodestituzione privata con l’autodestituzione pubblica.

Per una teoria dei valori

Dunque, non possiamo sottovalutare la mannaia che lo scetticismo contemporaneo ha calato, con un colpo solo, sull’aspirazione alla trascendenza e su quella ai valori, negando che essi possano essere veri o falsi e pertanto collocandoli in un limbo a metà tra l’arbitrarietà e la fatticità. Così viene resa assoluta la mancanza di chiarezza che da tutta la modernità si associa alla nozione di valore, non chiarita dal pensiero filosofico ma nemmeno dalle ideologie che hanno, anzi, contribuito vieppiù ad oscurarla (poiché le ideologie, specie quelle totalitarie, non hanno bisogno di valori e di idealità, ne sono anzi la sostituzione e la degenerazione in chiave assolutistica). “La scepsi ha penetrato l’etica fin nelle radici più profonde”, afferma Edmund Husserl, richiamando ai propri doveri la scienza e la filosofia europea. Qui oggi c’è una latitanza, e pertanto una responsabilità, di tutte le discipline, crescentemente prone all’interdetto weberiano fatto/valore (benché Max Weber non escludesse affatto la possibilità di applicare la razionalità al valore) e irretite in miraggi positivistici che le portano a una matematizzazione inconcludente e a specialismi esasperati, ragion per cui è diventato urgente nella ricerca dotarsi di maggiore interdisciplinarietà e minore rispetto dei confini (segnalo che di recente è nata una nuova rivista dal significativo titolo Indiscipline). Ma c’è una specifica responsabilità della filosofia, specie di quella di matrice illuministica ed umanistica che fu, invece, alla base delle battaglie di libertà e di giustizia del mondo moderno, a partire dalle grandi Rivoluzioni americana e francese, le cui categorie chiave – libertà, eguaglianza, fraternità – sono profondamente morali, per arrivare al rinnovamento costituzionale degli Stati nel Novecento, dopo le catastrofi delle due guerre mondiali. Confondendo la linfa antidogmatica, antifondamentalista, liberatrice della modernità con l’accettazione del relativismo ed escludendo i valori dall’ambito del razionalmente tematizzabile e indagabile e separandoli dalla conoscenza e dalla ricerca, la filosofia contemporanea compie una grave “colpa di omissione”, lasciando oscurata tutta la nostra esperienza quotidiana dei beni e dei mali, compresi quelli che concernono la nostra vita associata. 

Tra i pochi approcci che hanno contrastato questo andazzo c’è quello “personalistico”, che ha influenzato profondamente la Costituzione italiana, attraverso la mediazione operata soprattutto da Giuseppe Dossetti ma a cui contribuirono anche socialisti come Lelio Basso, poi ripreso da un laico come Stefano Rodotà che ha considerato la rivoluzione antropologica dell’homo dignus il più importante “lascito del costituzionalismo del dopoguerra”. Stupisce oggi che si voglia decostruire perfino il concetto di “persona” e approdare all’”impersonale”, appellandosi – come fa Roberto Esposito – all’autorità di Simone Weil, senza tener conto che Simone aspirava non alla negazione del potenziale umanistico racchiuso nella categoria di “persona”, ma a una sua dilatazione universalistica in chiave metafisica (in cui certo Esposito non si riconoscerebbe). 

Un altro approccio in polemica con questo andazzo è quello della scuola di Francoforte fondata da Max Horkheimer e Theodor Adorno, oggi proseguito da Jurgen Habermas e dai suoi allievi. Rahel Jaeggi apertamente invoca una ripresa di ragionamento sulle “forme di vita”, di più, su “capitalismo e forme di vita”.  Axel Honneth fa del recupero della dimensione valoriale e simbolica la base della sua proposta di un socialismo con “corposa concezione etica”, grazie al quale critica anche il marxismo tradizionale per la sua grave opacità quanto alla considerazione delle ricadute politico-morali del capitalismo e per il suo “monismo economicista disperante”, nel quale non rimane più “nessun spazio legittimo per l’autonomia dei singoli, per la ricerca intersoggettiva di una volontà comune”, consegnandosi a quella che egli definisce “occlusione di un accesso normativo alla sfera politica” generato dalla propria stessa dottrina, la quale inibisce di pensare i diritti di libertà liberali (che sarebbero volti solo alla tutela della proprietà e della licenza di costruire patrimoni privati) come premesse, piuttosto che come ostacoli, delle libertà sociali. 

Esplorare una nuova dinamica tra Politica e Trascendenza, cercare una “trascendenza laica” (una “trascendenza immanente”, direbbe Habermas riprendendo Hegel), praticare una “teoria dei valori”, riportare la riflessione su di essi dalla sfera privata nella sfera pubblica, sottrarli al “deflazionismo filosofico” e al “mutismo politico” è la premessa indispensabile per riabilitare la dimensione politica, la quale, in primo luogo, passa per una riabilitazione della dimensione morale. Non come moralismo o deplorazione lamentevole dei tempora e dei mores, ma come riscoperta della carica antropologicamente strutturante dell’immaginazione, del desiderio, dei sentimenti, della relazionarietà, del “principio speranza”, superando una concezione elementare e famelica dell’esistenza che ricorre alla paura come unica risorsa strategica. E questo ci porta alla trascendenza “intesa come tensione verso una dimensione, un tempo, una speranza che vadano oltre la finitezza della nostra vita e delle nostre stesse relazioni”, “la trascendenza come libertà del profondo”, per riprendere le parole di Claudio Sardo. Per tutto ciò sono necessari, a mio parere, alcuni radicali approfondimenti: 

a) risalire alle radici della frattura, che pervade tutta la modernità, tra due antropologie, un’antropologia negativa della “mancanza”, un’antropologia positiva delle “motivazioni superiori” (che risale a Platone e ad Aristotele). La antropologia “negativa” – alimentante la brama di possedere ricchezze e beni materiali e il desiderio di distinzione per cui gli altri paiono solo come nemici o competitori (brama e desiderio che hanno raggiunto punte parossistiche con la possessività, l’autointeresse, l’acquisitività dell’homo oeconomicus figlie del neoliberismo) – si è consolidata con Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes ed è arrivata fino a Bernard Mandeville e (parzialmente) a Adam Smith e poi a tutto l’Ottocento e il Novecento. La machiavelliana “verità effettuale delle cose” induce a vedere negli uomini solo ingratitudine, volubilità, attitudini simulatrici, vigliaccheria, cupidigia, il che dovrebbe suggerire al Principe e al politico di operare presupponendo “tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dell’animo loro”. In Hobbes la costrizione a conquistare sempre maggiore potere si radica nella carenza, nell’insicurezza, nella paura e nell’impulso all’autoconservazione che caratterizzano un individuo essenzialmente utilitarista. L’antropologia dell’uomo come essere “desiderante” è riassunta da Hobbes come repulsa degli “amici” e ricerca delle “persone da cui ci vengano onore e vantaggi”. L’essere umano è mosso soltanto da spinte alla competizione, alla diffidenza e alla gloria, spinte che lo portano a prevenire gli altri aggredendoli e così conducendo, come homo homini lupus, una “vita solitaria, misera, sgradevole”, da cui si fuoriesce esclusivamente con la neutralizzazione, compiuta dal Leviatano, della paura e del disordine tipici dello “stato di natura”. Da qui nasce e si sviluppa quello che Tommaso Greco definisce il “paradigma sfiduciario” alla base del pensiero giuridico-politico moderno – soprattutto del filone “realista” in cui spicca il Carl Schmitt dell’apologia amico/nemico – il quale, presupponendo una natura umana “cattiva”, dedita alla sopraffazione, fa ricorso solo alle componenti della forza, della minaccia della sanzione, delle misure coattive, ignorando le risorse della “fiducia”, della relazionarietà, della propensione a cooperare, della solidarietà, in verità normativamente attive anche nel diritto e nella strutturazione della legge, il che, se adeguatamente valutato e “non rimosso”, toglie validità alla pretesa conclamata separazione tra morale e diritto, tra etica e politica. 

b) Ritornare sulle responsabilità del filone postmoderno e del decostruzionismo che sono arrivati a condannare ogni tentativo critico che cerchi di universalizzare la condizione umana ricorrendo a valori quali la dignità, la persona, la giustizia, la verità, la coscienza, giungendo a considerare, con Michel Foucault, l’universale e l’umano fantasie totalizzanti e l’intera riflessione sullo sfruttamento e sull’alienazione un ritorno alle illusioni, dichiarate “regressive”, di Jean-Jacques Rousseau, Carl Marx, Erich Fromm, Herbert Siamo sollecitati a ripensare la condanna che il filone filosofico post-moderno ha fatto cadere su assi portanti della modernità e dell’illuminismo, tra cui il destino della dimensione “spirituale”, la problematica del “soggetto” e quella, che ne scaturisce, dell’”umanesimo”. Se, infatti, a differenza di quanto sostiene il postmodernismo à la Lyotard – che la concepisce come un’entità lineare, omogeneamente definibile e riconoscibile –  consideriamo la modernità come dinamicità e pluralità, campo di tensioni che configurano uno spazio teorico ricchissimo, pieno di ambivalenze, segnato irrimediabilmente da un dissidio fra polarità e da una pluralità di significati, scorgiamo quanto sia stato e sia tormentato il suo cammino attraverso tali tensioni. Rinunziare a una elaborazione intorno alle “soggettività singole”, e alla carica emancipatrice che ha avuto per esse l’idea di “persona”, vuol dire rinunziare a una elaborazione sulle “soggettività politiche”, scambiando la deflagrazione del “soggetto/sostanza” di matrice cartesiana (declinante la sovranità del soggetto nei termini di una razionalità olimpica, illimitata, operazionalizzabile in qualunque direzione) con la deflagrazione del soggetto tout court, tanto indagata dalla filosofia del Novecento, in Martin Heidegger spinta fino allo scherno sull’”umanesimo” (posto che per lui è un’illusione che con l’umanesimo “l’uomo si sia emancipato dai ceppi precedenti”). 

c) Bisogna continuare a dare valore alla spinta all’autonomia e alla trascendenza, perché esse rimangono essenziali per pratiche di effettiva autodeterminazione, emancipazione, liberazione, come è indicato nel magistrale Sources of the self di Charles Taylor. La stessa autonomia va, però, problematizzata, non pensata solo come “indipendenza” e “autosufficienza”, come aveva intuito Sigmund Freud – che ha collocato nella scoperta della vulnerabilità dell’io intrinseca alla dimensione dell’inconscio il processo di autoriflessione che fa fin dalle origini della psicoanalisi una disciplina emancipativa, in un raggio d’influenza ampliato da chi, come Erich Fromm, invita a superare l’esclusività del principio edonistico per non precludersi un’indagine anche etica e morale – e come ci ha insegnato il pensiero femminista (il vero inventore del “soggetto in relazione” e del paradigma della “cura”) che in tali declinazioni ha visto il rischio della riproposizione di un modello patriarcale negatore della differenza femminile. Poiché nel campo di tensioni della modernità sono state spesso ignorate l’intrinseca vulnerabilità degli esseri umani e la loro costitutiva interdipendenza, sono stati anche rimossi molti aspetti dell’emotività protesi verso la relazione, la solidarietà, la comunanza, la cura. Ma non dovremmo sorvolare sul fatto che Foucault rimase affascinato dalle teorizzazioni di Gary Becker – protagonista insigne del neoliberismo – sul “capitale umano”, le quali ci mostrerebbero l’avvenuto superamento dell’idea secondo cui forze sistemiche sottraggono al lavoratore la sua attività e se ne nutrono per crescere a sue spese, poiché il lavoratore non si troverebbe più faccia a faccia con la macchina capitalistica ma diventerebbe egli stesso una piccola macchina-capitale che produce ricavi. Per questo, alla pena critica per la “vita offesa” e per l’umanità umiliata da forze sistemiche anonime tanto argomentata da Adorno, è molto meglio per Foucault sostituire la costruzione di una miriade di “piccole attività di gestione del sé” facilmente vivificabili dall’incessante innovazione economica e tecnologica capitalistica. D’altro canto, la diffidenza di Foucault verso la problematica dell’alienazione è profonda e nasce dal fatto che egli dietro vi ravvisa proprio quello che c’è e che per lui è intollerabile: una forma di nostalgia per la natura e la vita “buona”, come se ci fosse, dietro al potere, una forma ottimale delle capacità umane che si tratterebbe di recuperare nella sua integrità. Ora, è indubbio che la teoria dell’alienazione si presta, come tutte le teorie, ad abusi e che una critica della vita alienata induce a ricorrere a concetti, e valori, come natura umana, bisogni, capacità, sui quali grava un rischio di essenzialismo. Ma una interpretazione essenzialistica di tali valori non è affatto ineluttabile e in relazione ad essa si può misurare l’efficacia di un taglio “laico” del discorso su “Politica e Trascendenza”.

d) Ecco, la riflessione deve fare i conti con tutto ciò. Per esempio: sono consapevole di quanto minato sia questo terreno, secondo l’avvertimento fatto da Michele Nicoletti nella riunione del 12 luglio dello scorso anno. Ma non sono d’accordo che l’importanza storica di Machiavelli per la teoria e la pratica politica debba indurci ad accettare tutti i suoi postulati e, anzi, sono convinta che la generalizzazione acritica del pensiero di Machiavelli vada rimessa drasticamente in discussione. Come non vedere quanto l’antropologia “negativa” e il paradigma “sfiduciario” sono in relazione con l’ostracismo dato ai valori nella sfera pubblica e quanto insieme hanno influenzato la politica e l’evoluzione democratica moderna e contemporanea? In particolare in Italia, il paese di Machiavelli, dove la sua eredità è stata spesso usata come un comodo alibi per giustificare inquietanti miscele di cinismo e di trasformismo e dove anche la sinistra è rimasta invischiata in una tradizione storicista e materialista che non di rado ha portato a snobbare come “filistee” o come “moralistiche” le istanze etiche e valoriali in politica. Non si tratta di aderire ingenuamente e fideisticamente a una visione “angelicata” dell’essere umano (a proposito di “trascendenza”!). Si tratta di ben altro: di uno scavo nella profondità e nella complessità delle pulsioni e delle motivazioni umane, senza “rimuoverne” alcuna. Amartya Sen afferma: “Se la curiosità epistemica verso il mondo è una delle tendenze condivise da molte persone, non meno presente nella nostra mente umana è l’interesse per la bontà, la correttezza e la rettitudine”. Il punto è, però, che il paradigma positivistico dominante impone che queste ultime siano logicamente e continuamente dimostrate, mentre non richiede alcuna spiegazione per l’esclusività dell’egoismo e dell’autointeresse, presi come indiscutibili dati di natura. 

Persona, dignità, amicizia: una modernità non machiavellica

In realtà e in sintetica conclusione, possiamo sentire nelle contraddizioni del mondo contemporaneo il vento che collega la Politica alla Trascendenza continuare a spirare: molte maglie rimangono aperte, nelle quali ci si può inserire, grazie alle quali e oltre le quali si deve agire idealmente ispirati. Attraverso queste maglie possono incanalarsi istanze valoriali sovvertitrici dell’ordine dato: avere/non avere, giusto/ingiusto, vero/falso, eguale/diseguale, libero/non libero, istanze alla quali sono aperte le Costituzioni nate nel secondo dopoguerra e dopo. Del resto, altrettanti chiavistelli normativi di apertura del mondo furono tutti i momenti rivoluzionari con i loro documenti fondativi, dal Dictatus Papae del 1075 alla Dichiarazione del 1789. L’universalismo occidentale è scaturito dal paradigma rivoluzionario grazie all’Europa, che “è la prima civiltà che ha concepito sé stessa in modo dinamico e la storia come ‘rivoluzione’ permanente” come dice Paolo Prodi, quello stesso che apprezza in Tommaso Moro e Girolamo Savonarola una visione della modernità “agli antipodi di quella descritta o propugnata da Machiavelli”. 

Per concretizzare tutto ciò la Politica deve esprimere la sua ansia di Trascendenza come principio di “non compimento”, secondo le parole di Vittorio Possenti, incorporando uno “spirito progettuale” intenso, analogo a quello, straordinario, che animò il New Deal di Roosevelt. Furono la sua “capacità progettuale” e l’intensità della mobilitazione morale a dilatare l’anima trasformativa del New Deal. L’assumere drammatici problemi morali, quali la sofferenza umana, in quanto tout court problemi politici era proprio di una tradizione politica anglosassone che interpretava gli eventi sociali nei termini di suffering situations, cioè terreni di contesa innanzitutto morale tra vittime, oppressori, riformatori. Ciò che rende unico il New Deal è che tale assunzione venne riprodotta al fine di ridisegnare radicalmente la “forma di vita” dominante, sottraendo gli individui alla passività e all’apatia con la mobilitazione per il lavoro e per la moralità politica. Non è per caso che l’Unione Europea abbia prima intitolato il suo più ambizioso progetto di rinnovamento Green New Deal e poi ispirato ad esso il rivoluzionario Next generation EU, che pone le basi di una nuova stagione del progetto europeo dimostrandone una forza perdurante nonostante le sue fragilità e incompiutezze, ancor più evidenti di fronte alla drammatica guerra in Ucraina.

Anche il tema del lavoro non può oggi essere adeguatamente trattato senza fare ricorso a risorse interpretative che fanno riferimento al “trascendente”. Mentre molti, anche a sinistra, tacciono o si trastullano con la convinzione della ineluttabilità della jobless society ritenuta intrinseca al funzionamento spontaneo del capitalismo, è papa Francesco a mostrare una persistente forte sensibilità al binomio lavoro/persona, tornando a ribadire con veemenza che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’avere ma l’“essere” del lavoratore, chiedendo di non ridurre la persona umana a puro elemento dei fenomeni economici e riaffermando la natura di relazione tra soggetti del rapporto lavorativo, soggetti “titolari di una ‘dignità’ e non solo di un ‘prezzo’” (come è, invece, nella concezione mercificata del lavoro). Il rovello del lavoro è sempre presente a papa Francesco, anche quando chiede persino una “conversione poetica” per uscire da un orizzonte esclusivamente produttivistico, anche quando invita “Fratres omnes” a “riproporre la funzione sociale della proprietà” per poter praticare l’”amicizia sociale” 

Dobbiamo fare i conti con il protratto velo di “oscuramento teorico” che ha gravato nell’ultimo trentennio sulle problematiche del lavoro e che ne ha accompagnato, e in buona misura causato, una lunga fase di “invisibilità” politica. Il paradosso è lo stridente contrasto tra il peso dell’“oscuramento teorico” e l’acutezza dello stravolgimento della vita economica e sociale provocato dai profondi cambiamenti degli ultimi anni, uno stravolgimento che avrebbe richiesto un’illuminazione analitica e teorica che, invece, è mancata. Per sciogliere questo paradosso siamo chiamati a una vera e propria svolta intellettuale in grado di restituirci la carica “umanistica” trasformativa racchiusa nel lavoro, il che richiede innanzitutto una rifondazione filosofica. Anche perché l’umanesimo intrinseco alle problematiche del lavoro è stato trascinato nella condanna più generale dell’umanesimo operata dal postmodernismo, sotto la spinta del decostruzionismo à la Derrida e del pensiero di Foucault. Con il giovane Marx, con Hegel, con Emile Durkheim possiamo vedere nel lavoro il processo attraverso il quale l’uomo non si limita a metabolizzare ma media anche simbolicamente il rapporto fra se stesso e la natura, cambia se stesso dandosi una funzione autotrasformativa, esplora sistematicamente dimensioni intellettuali di consapevolezza e di progettualità. Sono indimenticabili le parole con cui Simone Weil coglie nel lavoro la fonte per l’essere umano della “folle immaginazione”, si commuove per gli operai che di domenica conducono le famiglie “in gita” a vedere le loro fabbriche, si entusiasma per le “righe di accento lirico” con cui Marx parla del lavoro. Solo da una prospettiva siffatta, che ha chiari caratteri “trascendenti” risalta pienamente l’enorme significato, anche antropologico, della vitale “inquietudine creatrice” sempre soggettivamente racchiusa nel lavoro, alle origini del più autentico umanesimo. In essa il lavoro si configura come fattore vitale dell’identità del soggetto e attribuzione di significato all’esperienza esistenziale, esprime un’intrinseca dimensione di apertura verso il mondo e verso gli altri, contiene relazioni plurime (con il contesto in cui l’attività lavorativa si svolge, con il sapere e l’esperire di chi ha operato precedentemente, con gli altri che lavorano), il suo senso è impregnato di desiderio, quel desiderio che è un moto verso una destinazione mancante, un orizzonte nel quale non si è e al quale si aspira.

E solo in una prospettiva con un impulso alla trascendenza può radicarsi la volontà di non concepire l’innovazione e le nuove tecnologie come un processo inintenzionale, imperscrutabile, naturalisticamente determinato, ma come un processo intenzionalmente e strategicamente articolato e modellato, oggi ad opera delle propaggini delle grandi corporation (che, per esempio fanno dell’automazione una “galassia di simulazione integrale” che si impone su di noi senza che abbia luogo un adeguato dibattito pubblico), domani, in percorsi alternativi, ad opera di un pensiero e di una progettualità vivificati dalla spinta verso la trascendenza e pertanto in grado di orientare e dirigere la natura e il corso dell’innovazione. Perché non si tratta solo di evitare che delle tecnologie sia fatto un uso distorto e antisociale, si tratta di riuscire a dare vita alle condizioni per creare e inventare un’innovazione e un processo tecnologico completamente nuovi, orientati primariamente alla soddisfazione di bisogni sociali insoddisfatti e solo in via derivata alla generazione di nuove fonti di profitto. 

Laura Pennacchi è economista, attiva nella Fondazione Basso

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