Riaffermare il primato della persona

di Vittorio Possenti

Dopo aver visitato con profitto i testi di Claudio Sardo ed Eugenio Mazzarella, è stata una lieta sorpresa leggere l’eccellente riflessione di Laura Pennacchi in cui ritrovo non solo le preoccupazioni di tanti, ma pure alcune linee solutive per nuove partenze. Sospinto dal suo abbrivio, avanzo considerazioni, necessariamente succinte, su pochi punti determinati che mi interpellano da decenni, senza entrare nelle questioni sociali, il welfare, il lavoro, il nesso Stato-mercato e la globalizzazione. Come filosofo mi sento coinvolto dalle considerazioni di Laura, secondo cui il pensiero filosofico dovrebbe uscire dal suo mutismo, dal suo deflazionismo. Volgendo lo sguardo alla filosofia, specialmente europea, degli ultimi decenni si nota la sua difficoltà a liberarsi dalla cultura postmoderna e dalla sua critica decostruttiva e dissolvente, rivolta con particolare virulenza verso la nozione stessa di persona, mortificata e sezionata nei modi più svariati. E’ questo uno snodo principalissimo e inaggirabile: come riscoprire la verità e la centralità della persona entro un clima culturale che le è ostile. Agli inizi del 2020, pressati da questa situazione sfavorevole, un gruppo di filosofi ha costituito “Persona al centro. Associazione per la filosofia della persona” che è da allora in attività. In merito alla persona i pensieri di Laura colgono i limiti dell’Italian Theory di Roberto Esposito e di altri, ossessionati dal demone del decostruzionismo e dall’intento di trasformare il personale nell’impersonale e nel neutro. Questi per definizione non hanno volto: non si comprende perciò come l’essere umano possa divenire tale, se è circondato dal neutro. In verità l’uomo diventa uomo solo fra uomini; la persona diventa persona solo tra persone, e l’essere umano viene alla luce in un altro essere umano.

Il personalismo del Novecento ha via via percepito l’intensità delle sfide alla persona e ha offerto un contributo di prim’ordine in numerosi Paesi (anche a livello costituzionale) per riportare la persona al centro e farne un perno della politica, dell’etica, del diritto, di un più profondo senso dell’umano. Ciò è accaduto in specie alla fine della seconda guerra mondiale, e poi per numerosi decenni. Successivamente si è verificato un duplice movimento: l’enorme ampliarsi delle sfide interessanti la persona a motivo dell’evoluzione ultrarapida delle tecnologie, e l’ingresso di decostruzioni della sua realtà da parte del pensiero critico-negativo, il quale legge del tutto abusivamente la persona come un “dispositivo escludente”. Allego per conoscenza il Manifesto dell’Associazione e un mio contributo critico sull’Italian Theory che uscirà a breve.

2. L’elogio dell’impersonale comporta ovviamente l’interdetto gettato sull’idea stessa di umanesimo e di “nuovo umanesimo”, una vibrante scomunica che in vario modo proviene da Nietzsche, Heidegger, Foucault, Deleuze e numerosi altri. Appare impossibile guardare verso un nuovo umanesimo, se l’umano e il personale vengono decostruiti, se l’antropologia è un costante terreno di scontro, e se le due tradizioni antropologiche - quella della carenza e quella delle motivazioni superiori - si separano totalmente. Per esprimersi apertis verbis, l’esasperato dualismo dell’antropologia cartesiana (res extensa e res cogitans, corpo e anima che stanno uno accanto all’altra quasi senza toccarsi) ha costituito una vera sciagura per l’antropologia filosofica moderna, da cui non ci siamo ancora liberati. E’ il soggetto-sostanza di matrice cartesiana che è deflagrato, non la persona, e la sua deflagrazione era implicita nel rapporto di dominio dispotico della res cogitans sulla res extensa (il corpo, se così si può dire impropriamente, perché la res extensa geometrica di Cartesio è dimensione-estensione senza vita).

3. E’ appariscente la difficoltà di tenere insieme liberalismo e democrazia, specialmente nell’attuale situazione di crisi, disincanto ed angustia in cui versano le democrazie surclassate dal liberismo e dalla tecnica. Taluni parlano di neoliberalismo come nuova figura di origine anglosassone, introdotta all’epoca di Reagan e della Thatcher, ma se si scruta con cura il suo contenuto il nome migliore per determinarlo mi sembra quello del liberal-liberismo-libertismo. Il liberismo è l’effetto del transito dall’ideologia del potere al potere dei mercati. La concezione della libertà oggi dominante è quella di un liberalismo che viaggia verso il libertismo, intenzionato a intendere e ridurre la libertà umana a sola libertà di scelta e di autodeterminazione del singolo: ogni essere umano è un’isola. All’altro si dice: noli me tangere. D’altro canto si riscopre l’etica della cura, del rispetto, e della dignità che fluiscono dalla realtà stessa della persona; la riscoperta si attua in misura tanto maggiore quanto più la persona è riconosciuta nel suo valore plenario. Tommaso d’Aquino lo ha espresso con una formula che vale come un acquisto per sempre: «la persona è ciò che vi è di più nobile e di più perfetto in tutto l’universo». La persona è un fine in sé e la sua dignità non è limitabile: essa promana dal Vangelo e la Fratelli tutti lo evidenzia una volta di più.

4. Il riduzionismo, il positivismo e il libertismo che hanno percorso progressivamente non piccola parte del pensiero moderno, e che si sono riflessi nella prassi politica, a mio parere invitano a indirizzarsi verso un paradigma postliberale, in cui la “libertà e basta” non sia lo scopo politico supremo. “Nella prospettiva qui perseguita il termine ‘postliberale’ è sostanziato da tre nuclei: i diritti di libertà non hanno sempre e dovunque il predominio; il bilanciamento tra diritti e doveri deve essere più rigoroso che nell’individualismo liberale; infine più radicalmente la libertà non può essere lo scopo politico unico o supremo. Oltre ad essere vero che la libertà non è tale fine ultimo, storicamente emerge che il progetto incompiuto della modernità è la giustizia più della libertà. Per proseguire in senso integro la ‘storia della libertà’ non possiamo più guardare quasi solo ad essa. Sosterrò invece che la politica postmoderna dovrebbe risultare centrata sul ‘principio-persona’ invece che sul ‘principio libertà’ e che il primo è più fondamentale e primario del secondo” (L’uomo postmoderno. Tecnica Religione Politica, 2009).

5. Su tale sfondo si innesta un processo notevolmente diverso: l’impatto multilaterale della tecnica sull’uomo che avanza a gran velocità. La questione della tecnica ci interpella tutti e a mio avviso la sua “volontà di potenza” appare più forte che mai. Ricorrendo a tale espressione oggi corrente, è importante non celarne l’improprietà: la tecnica è una creazione umana, e la sua volontà di potenza fluisce dall’essere umano. Claudio ha formulato la domanda che si impone: “Peraltro, sentiamo ancor più il bisogno di discuterne insieme ora che la scienza varca confini mai neppure sfiorati. I confini delle biotecnologie, dell’intelligenza artificiale, delle manipolazioni genetiche. Si parla di post-umano. Non è forse il tempo per condividere – fuori da ristrette élite - una discussione sull’uomo e le sue dimensioni? Cosa occorre per governare le tecno-scienze secondo criteri etici che rispettino l’inviolabilità, l’unicità, la libertà di ogni singolo essere umano?”.

Senza trascurare altri aspetti di grande rilievo, il nucleo che mi sembra maggiormente rischioso concerne la procreazione umana, che non può essere ridotta a produzione dell’oggetto-figlio. Generare non è produrre. La biopolitica come politica del/sul corpo umano vivente manifesta il suo massimo potere nel momento della generazione. In effetti le biotecnologie intervengono in molti modi sulla procreazione umana, cercando perfino di cambiare l’essenza umana, come spesso dichiarano i fautori del transumanesimo e del postumanesimo. Mi perdonerete se ricordo che in vari scritti scaglionati lungo 20 anni (vere prediche inutili) ho cercato di mostrare, muovendo verso le radici della res chiamata persona, che la volontà di potenza della tecnica non può arrivare a mutare in altro l’essenza (o natura) umana: essa ci proverà in molti modi con l’esito probabile di aprire cammini temerari e risultati distruttivi. Postumanesimo e transumanesimo ritengono il contrario, e potranno condurci verso cammini sbagliati nella loro illusione impraticabile, ma con gravi costi. Come si dovrebbe sapere, ogni tecnologia è uno strumento essenzialmente ambiguo, strutturalmente aperto sui contrari, verso il meglio e verso il peggio. Aldo Schiavone, nonostante la pregiudiziale postmetafisica, ha colto acutamente, muovendosi sul terreno etico, i rischi gravi che ci stiamo assumendo. E Michael Sandel in Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica ha mostrato i rischi insiti nella manipolazione genetica che cerca il prodotto perfetto. Concordo con entrambi, aggiungendo che, secondo la mia opinione, il generale richiamo all’etica per imbrigliare positivamente la potenza manipolante della tecnica appare insufficiente. E’ ben vero che i concetti natura e di essenza sono delicati da maneggiare, ma questo non deve diventare un pretesto per metterli da parte senza discernimento, presentandoli come uno spauracchio da evitare ad ogni costo. Occorre anzi richiamare in servizio la nozione di natura umana (o di essenza umana), senza di cui il concetto stesso di persona umana non regge, senza timore di essere accusati di essenzialismo. Bisogna guardarsi dal confondere natura come physis con natura/essenza umana, la quale va oltre il mero elemento biologico e naturalistico. Confusione che è invece accaduta con frequenza nella modernità filosofica.

Da giovani, in genere, ci si chiede come cambiare il mondo. Quelli del Sessantotto pensavano di farlo, superando ogni limite e facendo a meno del principio di realtà (non intendo il realismo politico, ma il rigetto della struttura fondamentale dell’umano, e la resa alla post-verità). Ignoravano che la realtà dell’umana natura resiste ai tentativi di trasformarla, di ri-crearla e divinizzarla secondo un progetto ideologico, che pretende di avere la soluzione per liberare l’uomo dai suoi bisogni e soddisfare i suoi desideri. 

6. In Occidente il liberal-libertismo manifesta toni accesi e oltranzisti nell’ambito dei diritti. Senza dimenticare la spinta verso un diritto di aborto quasi senza limiti (nella Unione europea alcuni premono per costituzionalizzarlo), vorrei mantenermi nell’ambito della procreazione ed esaminare l’assunto che esista un diritto assoluto e indifferenziato al figlio, comunque ottenuto. Qui l’attenzione deve farsi massima, perché la categoria più universale e fondamentale dell’umano è quella di figlio: tutti gli esseri umani sono figli, mentre non tutti sono padri e madri. Manipolare la categoria di figlio (e conseguentemente quelle di padre e madre) comporta conseguenze radicali sul concetto stesso di famiglia con padre, madre e figli da loro procreati. La pratica diffusa dell’utero in affitto che umilia la donna, fa del figlio un oggetto cui sarà negato il diritto fondamentale di conoscere le proprie radici. Né credo che l’art. 29 della nostra Carta possa ospitare il “matrimonio omosex o egualitario” con il correlativo diritto al figlio, comunque ottenuto.

7. Una parola merita la condizione del diritto (dapprima come jus e poi come lex) in cui il Novecento giuridico ha spesso optato per un positivismo giuridico senza sottintesi, che con Kelsen conduce verso un sostanziale nichilismo: la legge è posta dalla volontà più forte ed egemone in un dato complesso storico-concreto, ed essa stabilisce che cosa è legale, senza relazione con il giusto e l’ingiusto. Non è tempo perso ricordare che i totalitarismi hanno trovato nel positivismo giuridico l’alleato fondamentale per le loro prevaricazioni, volte a negare la Persona e il Diritto che sono legati necessariamente e a filo doppio: la Persona è il Diritto sussistente e pertanto l’essenza del Diritto (Antonio Rosmini). Quanto alla legge, le evidenze indicano che la legge prevalente, perché funzionale al mercato e all’economia, è la lex mercatoria.

Su piano concreto la potenza che le grandi multinazionali digitali (informazione, biotecnologie, robotica e lavoro, neurotecnologie, etc.) è tale che solo un forte controllo pubblico e una discussione pubblica e critica potrà almeno in parte salvarci dal nuovo totalitarismo tecnologico. La discussione pubblica dovrebbe essere molto maggiore di quanto è oggi, e non bisognerà confondere le acquisizioni scientifiche, sempre buone (conoscere non è mai un male) dalle applicazioni tecnologiche che sono per loro natura intrinsecamente ambivalenti.

8. Politica e trascendenza è il nostro tema, strutturalmente aperto a diverse prospettive. Rimanendo sul piano di immanenza, esso ingloba i criteri di inappagamento, di apertura all’oltre, di non-compimento che sono fondamentali nell’esistenza singola e collettiva, ma le cui sorgenti sono da tempo alquanto inaridite. Se così non fosse, il nostro inquieto interrogarci sarebbe meno necessario. In Europa circola una “stanchezza della storia”, di cui tra gli altri hanno detto George Steiner, Joseph Ratzinger e anche papa Francesco che invita senza riposo a nuovi impegni contro la rassegnazione al presente. Sembra che l’Europa sia paralizzata dall’interno, dall’interiore declino delle forze spirituali portanti. Il futuro è visto non come un insieme di possibilità aperte, ma come un tempo in cui le paure dell’oggi saranno moltiplicate domani.

Quando poi sulla scorta della Rivelazione e della fede conseguente oltrepassiamo il piano d’immanenza senza rinnegarla, scopriamo che l’umanesimo che promana dal cristianesimo non può non essere l’umanesimo dell’Incarnazione del Verbo, ossia la meditazione sui riflessi temporali e politici dell’evento del Verbum caro. In esso accade la paradossale ma realissima figura della “Trascendenza immanente”, in cui divino e umano, storia e sovrastoria, presente ed escatologia possono toccarsi, temporale e spirituale riavvicinarsi, oltrepassando quella neutralizzazione pubblica della religione e il confinamento nel privato che è stato, e in certo modo è ancora, lo stigma del secolarismo liberale (e ancor più dei totalitarismi).

PS: La risposta di Giorgio La Pira alla domanda di David Sassoli è simile a quanto Jacques Maritain scrisse sul compito del filosofo non accademico: porre l’orecchio sul suolo per tentare di cogliere le germinazioni profonde e l’avvio di nuovi processi.

Vittorio Possenti è filosofo, promotore del Manifesto “Persona al centro”

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