Perché discutere di politica e trascendenza

di Claudio Sardo

(intervento introduttivo all’incontro del 12 luglio 2022, promosso dalla Fondazione Achille Grandi)

Vi ringrazio per aver accolto l’invito a questo dialogo. Accostare politica e trascendenza è così inconsueto da risultare quasi provocatorio, e per questo nella vostra disponibilità colgo anzitutto il segno forte della vostra amicizia, oltre che della stima per le Acli e la Fondazione Achille Grandi.

Ma colgo anche un desiderio di andare in profondità nella ricerca delle ragioni che stanno velocemente trasformando il nostro modo di vivere e sentire la comunità, che stanno mutando il valore stesso della politica, il quale è strettamente connesso al valore che diamo al futuro e alla capacità collettiva di incidere sulla vicenda umana, di fare la storia.

David Sassoli ricordava che da ragazzo chiese al professor Giorgio La Pira cosa intendesse per “escatologia del profondo”. La Pira gli rispose che la storia è come un oceano in cui sei in grado di cogliere le correnti quando affiorano, ma in profondità altre si preparano, si fanno spazio, si gonfiano, si allungano. Scoprirne la forza prima che si manifestino è opera della politica. Di una politica all’altezza dei propri tempi.

Non so se mettendo insieme due parole così cariche di significati come “politica” e “trascendenza” sia possibile procedere davvero nella profondità. E tuttavia, anche grazie ad alcuni colloqui avuti con voi, mi sono convinto che ci siano relazioni importanti da indagare, connessioni vitali anche se dimenticate, questioni di senso che la quotidianità della vita e le mille urgenze ci spingono a rimandare, ma che non possiamo permetterci di trascurare a lungo, pena un insopportabile inaridimento.

In qualche scambio di mail ho scritto che basterebbe una semplice constatazione, peraltro largamente condivisa, per avviare questo dialogo e impegnarsi in un approfondimento. La constatazione è che nell’immanenza la politica democratica rischia di soffocare, le manca l’ossigeno. Vediamo che è così ogni giorno.

Certo, ci sono ragioni corpose e strutturali che hanno portato l’immanenza ad assumere una egemonia sul vissuto, sul pensiero, sugli interessi, sui sentimenti, sui desideri. Non si tratta di una bizzarria degli eventi. Le interdipendenze crescenti nel nostro mondo divenuto globale, e dunque ravvicinato, hanno offerto opportunità straordinarie e inedite ma hanno anche costruito sistemi di compatibilità difficilmente emendabili, che creano dipendenze sempre più stringenti.

Il dominio del presente ci costringe in un labirinto

Si alzano attorno a noi delle mura alte, spesso insuperabili, mentre si allargano le forbici della disparità sociale. Sono mura fatte di sapere e conoscenze tecniche, di condizioni di mercato, di linguaggi o di percezioni che si impongono rapidamente nel senso comune. Come un grande labirinto nel quale l’uomo vive – talvolta disponendo di confort di lusso, talvolta relegato in angoli disperati – ed è sempre meno capace di coltivare l’ambizione di essere artefice della storia, di lottare per plasmare il domani, di allungare lo sguardo sul futuro per pensarlo diversamente.

L’orizzonte che si accorcia sta diventando quasi una pratica di sopravvivenza. Il presente si impone come la sola sfida realistica. E non rinuncia a vantare le sue ragioni. I filosofi ci spiegano come questa appropriazione del momento, del contingente abbia radici robuste nella modernità, avendo a che fare con la separazione tra il sacro e il profano, con l’affermarsi del principio di laicità, e dunque con il limite del potere, con la possibilità di rovesciarlo. Gli storici ci segnalano come la conquista del presente sia, essa stessa, una conquista di libertà, di emancipazione, come proprio la vita quotidiana sia stata a lungo l’inferno per grandi moltitudini sospinte dal bisogno, e poi sia divenuta per tanti occasione di crescita, ampliamento degli spazi di vita.

Eppure il presente non basta a disegnare per intero l’uomo e la donna. La loro libertà, la loro coscienza, i loro diritti, i loro doveri. Non basta a saziare il desiderio di infinito, da cui scaturisce un principio di non appagamento e la ricerca incessante di costruire, costruire ancora. Potremmo dire con una immagine biblica: di partecipare ancora alla Creazione. Da solo il presente non consente, e anzi limita, uno sviluppo pieno e libero della personalità.

Il presente consuma il futuro se non è capace di guardarlo, di immaginarlo, di viverlo in un sogno, in una utopia, in un desiderio. Oggi si può immaginare una rivolta, una protesta anche rumorosa, ma non si immagina più una rivoluzione, una nuova società, una liberazione in nome dell’uomo da sistemi di compatibilità ritenuti ingiusti. Sono catene talvolta invisibili: anche per questo si dubita che sia utile liberarsene.

Il futuro è presupposto di democrazia e giustizia sociale

La conquista di un presente dignitoso, da poter vivere, è costato sacrificio, lotta, dolore, ma il presente non sarebbe stato conquistato senza il futuro. Se le forze storiche dei cambiamenti non avessero immaginato un mondo migliore, radicalmente diverso, e poi magari realizzato parzialmente oppure ignobilmente tradito. La rivolta senza visione, senza ideale condiviso, senza la speranza di una società migliore è come una pianta che prova a mettere radici sulla sabbia o sulla roccia. E’ destinata a rinsecchirsi rapidamente.

Che siano segni di questa involuzione le pulsioni populiste, o reazionarie, che attraversano le nostre società? Retrotopie invece di utopie, come ha scritto Vittorio Possenti.

L’economia che prevale sulla politica, la finanza che fissa paletti alla democrazia, le entità sovranazionali che governano i mercati assai più di quanto non riescano a fare gli Stati, sono la nostra condizione. Sono lo spazio dell’azione politica. Sono anche la contraddizione dell’Occidente, dove la democrazia, la libertà, l’uguaglianza tra gli uomini, i diritti costituiscono il nostro dna, l’impasto irrinunciabile nel quale vita e cultura danno forma al nostro modello sociale.

Eppure – cito il celebre paradosso di Bockenforde – lo Stato liberale secolarizzato, quello del nostro Occidente, vive di presupposti che non è in grado di garantire. I presupposti sono i valori, i comportamenti, la coscienza dei doveri necessari a che la ruota della democrazia, della giustizia sociale, della coesione possa continuare a girare.

Tra questi presupposti, è la domanda, c’è anche un’apertura alla trascendenza, intesa come tensione verso una dimensione, un tempo, una speranza che vadano oltre la finitezza della nostra vita e delle nostre stesse relazioni?

Ecco, io non credo che sia una domanda religiosa. O meglio, non è soltanto religiosa. Non è rivolta solo ai credenti. Per chi crede, ovviamente, il tema tocca il piano della salvezza, il significato della redenzione, la teologia della storia, la riserva escatologica. Ma non si può certo escludere il resto dell’umanità dalla ricerca necessaria per dare risposta a questa domanda di senso.

La trascendenza ha una dimensione laica, universale

Ecco perché nel nostro dialogo vorrei porre a tema – sempre che sia sensato e possibile – la trascendenza come dimensione laica, universale, che riguarda la persona in quanto persona, le comunità civili, la loro capacità di guidare gli eventi, quelli più grandi oltre che quelli minuti.

Vorrei che il nostro confronto fosse libero di muoversi in uno spazio grande. Il dialogo tra credenti e non, e quello fra credenti di diverse fedi, non può a mio giudizio saltare questa domanda. Essere al tempo stesso uomini del presente e uomini del futuro: non è questa la nostra natura? Quante donne, quanti uomini hanno dato la vita, hanno sacrificato ciò che avevano di più caro, per una speranza o per un traguardo che andava oltre la propria vita?

Peraltro, sentiamo ancor più il bisogno di discuterne insieme ora che la scienza varca confini prima mai neppure sfiorati. I confini delle biotecnologie, dell’intelligenza artificiale, delle manipolazioni genetiche. Si parla di post-umano. Non è forse il tempo per condividere – fuori da ristrette élite - una discussione sull’uomo e le sue dimensioni? Cosa occorre per governare le tecno-scienze secondo criteri etici che rispettino l’inviolabilità, l’unicità, la libertà di ogni singolo essere umano?

Sentiamo il bisogno di parlare di quell’oltre che sta già dentro di noi, quando osserviamo il sacco del pianeta, l’aggressione ai suoi equilibri, il consumo di risorse che procede a ritmi molto più veloci di quanto non siano i tempi della riproduzione. Il pianeta morirà se l’inerzia del presente non viene fermata e se il senso di marcia non viene invertito. Ma dov’è la forza, dove sono le risorse, i movimenti reali capaci di far saltare le compatibilità che oggi regolano lo sfruttamento ecologico e che sovrastano i poteri degli Stati? Dove può poggiare una conversione ecologica che richiede necessariamente una redistribuzione di poteri e un cambiamento radicale delle gerarchie?

L’ecologia è anche una grande questione sociale. Crea diseguaglianze, povertà, marginalità, esclusioni, deserti. Così come le questioni sociali più rilevanti sono anche questioni ambientali, perché uno sviluppo sostenibile ha bisogno, necessariamente, di una maggiore coesione civile, di un equilibrio di opportunità, di conoscenze, di risorse, di diritti, di welfare. Il realismo politico ci spinge spesso a non rischiare. E intanto le parole riforma, riformismo, hanno cambiato di segno rispetto a qualche decennio fa. Non è un caso che a usarle con maggiore frequenza siano proprio i poteri che sollecitano una sostanziale omologazione.

Ora c’è anche la guerra che ci sconvolge. Una aggressione folle e scellerata a un Paese sovrano. Una guerra che nessuno riesce o vuole fermare, e di fronte alla quale il sentimento più immediato che proviamo è quello dell’impotenza. E’ scoppiata la terza guerra mondiale, anche se lontano dal suo epicentro ha caratteri ibridi e una bassa intensità militare. Bisognerebbe porsi il tema di come fermarla, invece di come proseguirla con efficacia. Bisognerebbe far tacere le armi e ridare la parola alla diplomazia, e invece ci troviamo anche qui dentro inerzie di cui non siamo padroni. E intanto le compatibilità impongono conformità.

Le nostre libertà poggiano su un’ansia di infinito

La domanda che mi pongo è se quest’ansia di infinito, che oggi sentiamo compressa da forze reali e potenti, non contenga anche una parte decisiva della nostra libertà di pensiero, della nostra facoltà di pensiero critico, della nostra possibilità di immaginare ancora un mondo diverso, migliore. La trascendenza come libertà del profondo. Che riguarda tutti gli essere viventi, che – azzardo – potrebbe essere considerato un diritto di tutti gli essere viventi.

Possono l’amore, la fraternità, la solidarietà, l’accoglienza, l’amicizia sbocciare ed essere sinceri in un presente che tende a divenire il tutto? Oppure finiscono per crescere solo interessi individuali, per di più interessi a breve? C’è una connessione da indagare tra ipertrofia del presente e ipertrofia dell’individuo. Anche l’esplosione della soggettività contiene tanti significati liberatori, ma c’è un’altra faccia di questa medaglia che non va nascosta.

La trascendenza, oltre che riserva critica di pensiero e di speranza, può forse rigenerare un’idea di comunità, un senso di appartenenza alla storia collettiva, può rafforzare la connessione tra diritti e responsabilità, può fare della solidarietà non un sacrificio ma un vantaggio. Aspirare al futuro, andare oltre, pensare anche oltre la propria esistenza amplia le facoltà della persona, non le limita.  

La politica, del resto, su quali basi può rinnovarsi, rilanciarsi, affascinare, unire, progettare di nuovo se il potere, anzi, diciamoci la verità, il sottopotere, diventa la sua vera, preminente ambizione?

Dossetti parlò di “due piani” della politica quando annunciò a Dossena la propria intenzione di lasciare gli incarichi di partito e di intraprendere la via del monachesimo. I due piani si erano allontanati troppo. Il realismo politico era dalla parte di De Gasperi, ma lui non sentiva quel realismo suo fino in fondo. Non intendeva disprezzarlo, ma scelse di seguire la propria vocazione nell’altro “piano”, quello spirituale, che poi era anche ecclesiale, teologico. Perché considerava quel piano irrinunciabile. Era il suo cercare nella profondità. Immaginando un domani nel quale i due piani potevano di nuovo riavvicinarsi.

La politica ha sempre due piani. Si è tanto polemizzato sulla doppiezza. Al di là dei tatticismi deteriori, occorre però riconoscere che senza il piano dove circolano gli ideali e le utopie, il piano dei programmi concreti e delle soluzioni pratiche rischia di restare senz’ anima, un campo dove si possono smarrire anche le distinzioni e l’orientamento.

Di trascendenza e politica penso dunque che si possa, che si debba parlare. Naturalmente stando attenti a non creare equivoci con chi vuole usare la croce dei cristiani per erigere una fortificazione attorno all’Occidente in crisi, con chi vuole strumentalizzare la fede, e le fedi, per infiammare guerre di religione, con chi vuole rinvigorire i nazionalismi e i le vecchie signorie per difendersi così dalla società globalizzata. Nessuno di noi ha mai pensato di usare l’oltre, la sete di infinito per alzare muri. Noi, i muri vogliamo superarli. Per liberare desideri di giustizia, per riconquistare continuamente quella libertà che non è mai conquistata una volta per tutte. Per restare ancora inappagati, certo, ma essendo capaci di cogliere il limite mentre si cerca di spostarlo.

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Claudio Sardo è giornalista e componente del Cda della Fondazione Achille Grandi

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